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What now? L’Unione Europea a 27 Stati membri

Lunedì, 22 agosto, il presidente del Consiglio dei ministri italiano Matteo Renzi, ospiterà a Ventotene il presidente francese Francois Hollande e la cancelliera della Repubblica federale tedesca Angela Merkel. I temi, il luogo e il momento dell’incontro evidenziano con assoluta chiarezza la posta in gioco dell’ora delle decisioni per l’Europa unita.

L’attesa di molti cittadini e cittadine europei è che non sia un evento turistico e neppure, soltanto, un incontro di alto profilo storico-politico nell’Isola dell’Europa. Ci attendiamo che il cuore dell’incontro sia una riflessione strategica per e sull’Europa Unita (con dettagliati contenuti anche concreti) dopo il referendum britannico.

(Brexit, chi era costui?)

Nelle settimane trascorse, l’Europa – sì “l’Unione”, e non Francia, Germania, Italia, o altri Paesi membri – è stata scossa da attacchi terroristici di varia natura e via via si è sentita sempre più oppressa da una sorta di ‘ansia globale’. Ed è sembrato avere quasi dimenticato che il 23 Giugno 2016 la Gran Bretagna ha tenuto un referendum sulla sua permanenza nella Unione Europea. E che alla domanda: “ il Regno Unito deve rimanere come membro dell’ Unione Europea o deve lasciare la U.E.?” la risposta dei popoli del Paese membro – Regno Unito – è stata, globalmente, quella di “lasciare, uscire, ‘leave’”.

Nel frattempo, con una non prevista accelerazione (per la modesta ragione che i candidati o contendenti si sono via via ritirati dalle primarie di partito) il Regno Unito si è dato – il 13 luglio – un nuovo Governo, con la prima ministra Signora Theresa May (già ministra degli Interni del ‘governo Cameron’). Pur essendo stato un referendum soltanto consultivo, la premier May – nel pieno delle sue funzioni – ha rilasciato una dichiarazione chiara ed esplicita: “out is out”. E, fin qui, all’unisono con le Istituzioni europee. Poi, però, ha fatto un giro in alcune capitali (Germania, Francia, Italia, ecc.) nelle quali sembra aver chiesto “tempo”; ugualmente ha visitato la Scozia e l’Irlanda del Nord, dove ha registrato la volontà dei due Governi locali di un percorso (ancora non sufficientemente ben definito) verso la riapertura del capitolo della loro permanenza nel Regno Unito, insieme con la volontà (già ben espressa dai rispettivi popoli nei risultati del voto referendario) di restare nella Unione Europea.

Dal 23 giugno in poi, nel dibattito pubblico, la complessa problematica conseguente al risultato referendario ha trovato una puntuale trattazione relativamente alle conseguenze economiche, mentre permane una non adeguata – e persino deviante – trattazione (anche nel linguaggio) del percorso successivo alla volontà-legittimità (indiscussa) registrata dagli esiti referendari.
Un esempio. In occasione della visita – il 20 luglio – della neo-premier May alla cancelliera della Germania Angela Merkel, il ‘Corriere della sera’ titola: “ Brexit , Merkel concede più tempo a Londra” (21 luglio 2016); e il suo inviato scrive: “Quell’urgenza impellente che meno di un mese fa agitava l’Europa che, ferita e offesa, voleva punire la Gran Bretagna obbligandola ad avviare immediatamente le procedure d’uscita dalla UE (…)”.

“Punire”? “Ferita ed offesa”? “Urgenza impellente”? “Obbligandola”? C’è da restare stupiti, ed anche provare rabbia di fronte all’uso di simili vocaboli. E neppure sono accettabili i termini o le parole pronunciate dalla Cancelliera ( stante all’articolo), quali: “la linea dura della UE non serve”. Perché la Germania (sono autorizzato a ritenere che sia lo Stato membro che parla) avalla l’esistenza di una o più linee – la dura e la dolce – quando la “procedura” (è troppo burocratico?) o la “regola” è che “ogni stato membro che decide di recedere notifica tale intenzione…”? Chi inventa altri modi per stare nella casa comune, ha forse altri non noti o nascosti obiettivi? Diario ritiene che questo metodo “politicistico”, e il linguaggio giornalistico connesso, fanno alla Integrazione Europea molto danno e, inoltre, nessun servizio utile fanno ai cittadini e alle cittadine europei.

(articolo 50 del Trattato per uscire; art. 49 per entrare)

Con molta enfasi e come se fosse una scoperta dell’ultima ora, all’indomani del voto (quindi il 24 giugno) comunicatori e addetti vari hanno tutti citato – a gran voce- l’articolo 50 del Trattato sull’Unione Europea. Il breve Trattato dell’Unione è composto di soli 55 articoli; ogni giornalista o comunicatore di eventi europei dovrebbe conoscerli a memoria. I lettori e le lettrici di “Diario” hanno già avuto occasione ( Diario del 12 gennaio 2016) di conoscere questo importante e significativo articolo, evocato – in quella occasione – per ricordare ad alcuni Paesi o Stati membri (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia) che la membership europea non è una prigione da cui non si può uscire; tanto meno una calamità piovutaci addosso “nostro malgrado”.
Di fronte ai prossimi strategici e cruciali mesi, Diario sente il bisogno di insistere su questi aspetti fondanti la adesione, libera e responsabile, all’ Unione Europea.

L’articolo 50 si presenta senza alcun tono minaccioso; dice: “Ogni Stato membro può decidere, conformemente alle proprie norme costituzionali, di recedere dall’Unione. Lo Stato membro che decide di recedere dall’Unione, notifica tale intenzione al Consiglio europeo…”. A seguito della “notifica” ufficiale, non inizia – immediatamente o automaticamente – il negoziato conseguente, finalizzato a regolare la separazione. Il Consiglio europeo – senza alcun coinvolgimento dello Stato membro che ha già deciso legittimamente di recedere – “formula orientamenti”, alla luce dei quali “l’Unione negozia e conclude con tale Stato un accordo volto a definire le modalità del recesso, tenendo conto del quadro delle future relazioni con l’Unione” (ex art. 50).

Sono, quindi, del tutto incomprensibili sia le accuse di “fretta”, sia le richieste di tempo, al fine di – come si apprende dalle varie dichiarazioni – “preparare bene il negoziato”. Forse che lo Stato –Regno Unito – (e il’ Paese’: i cittadini che hanno scelto con un esplicito voto di recedere)- che ha indetto un referendum, sviluppato una lunga campagna elettorale deve ancora riflettere se recedere o meno? Non è plausibile. Deve ancora chiarirsi le idee sulle conseguenze delle scelte sollecitate, dibattute e fatte? Ma, allora, sulla base di quali disegni strategici, il Governo britannico ha indetto un referendum e su quali progetti ha chiamato il suo popolo ad una scelta così fondamentale? Oppure pensa che possa “negoziare” modalità e contenuti prima della comunicazione? E su quali basi giuridiche, e in quali sedi extra-territoriali (visto che il Trattato non li prevede) bisognerebbe “preparare” il normale e conseguente negoziato di cui parla, invece esplicitamente, il Trattato? Nell’articolo 218 del Trattato di Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), unica base giuridica – dopo l’artico 50 del TUE- il negoziato con un ex Paese membro è sotto il titolo ‘Accordi internazionali’ e il Paese/ Stato viene denominato “Paese terzo”; il “nome” che viene dato a chi è fuori della Unione Europea. Le parole pesano, come pietre: sono le basi di una costruzione europea, affidabile di fronte al mondo.
La realtà è che il Trattato della Unione Europea, limpidamente, prevede, con solennità istituzionale, la possibilità di uscire dall’Unione, perché concepisce se stessa come una Scelta, una Opportunità, una Libertà; e non come una prigione o una mera, altalenante consorteria di tipo commerciale.

La serietà di uno Stato e la dignità di un popolo – in questo caso il Regno Unito e i popoli britannici – avrebbero dovuto consigliare quel Governo o quel Parlamento ( opzione non in capo alle Istituzioni europee) a comunicare al Consiglio europeo, subito ( o un minuto dopo la conferma della regolarità e l’efficacia del referendum da parte dei rispettivo organo preposto) la notifica di recesso. E soltanto dopo, nel caso che lo avesse ritenuto necessario, procedere alle dimissioni del Governo o del suo primo minsitro (che aveva indetto il referendum, con l’invito esplicito – e politicamente impegnativo- a votare per rimanere nell’Unione).
E’ del tutto evidente che il Governo del Regno Unito ha sbagliato ogni mossa, e ha proceduto pasticciando e rincorrendo unicamente i propri interessi (o pulsioni) nazionalistici o addirittura di partito; mettendo a rischio non solo la stabilità della propria moneta, ma anche quella (l’euro) di 18 Stati membri (su 28 ) della Unione, ai quali, ora chiede ancora “tempo”.
Con l’articolo 50, dunque, questa Unione dimostra di essere una casa con le porte aperte. E non solo; c’è un altro articolo del Trattato, la cui lettura e memoria danno della Unità Europea una esauriente, indispensabile consapevolezza. Prima che i mitici comunicatori dei fatti e della vita di questa Unione Europea, lo scoprano – anche in questo caso come fosse la novità dell’ultima ora – Diario ritiene di grande interesse e importanza affiancare all’articolo 50, la lettura meditata dell’ articolo 49, appena precedente: insieme, infatti, delineano – seppure con la sobrietà e la freddezza tipiche di un testo giuridico- il carattere fondamentale della Integrazione europea.

Dice, l’articolo 49: “Ogni Stato europeo che rispetti i valori di cui all’articolo 2 e si impegni a promuoverli, può domandare di diventare membro dell’Unione. Il Parlamento europeo e i parlamenti nazionali sono informati di tale domanda. Lo Stato richiedente trasmette la sua domanda al Consiglio, che si pronuncia all’unanimità, previa consultazione della Commissione e previa approvazione del Parlamento europeo, che si pronuncia a maggioranza dei membri che lo compongono. Si tiene conto dei criteri di ammissibilità convenuti dal Consiglio europeo. Le condizioni per l’ammissione e gli adattamenti dei trattati su cui è fondata l’Unione, da essa determinati, formano oggetto di un accordo tra gli Stati membri e lo Stato richiedente. Tale accordo è sottoposto alla ratifica da tutti gli Stati contraenti conformemente alle loro rispettive norme costituzionali”.

‘Diario europeo’ ha voluto riportare integralmente l’intero articolo per le seguenti ragioni: diventare membro dell’Unione non è un atto burocratico; implica l’assunzione di “valori” (art. 2) non generici; assunzione che viene caratterizzata da due elementi espliciti: “rispetto” e “promozione”; tutte le Istituzioni europee sono coinvolte nel processo di adesione di un nuovo Stato membro; le Istituzioni nazionali di ciascuno Stato membro sono corresponsabili, e anche il popolo ( il cui Stato avanza la domanda di adesione) attraverso il Parlamento nazionale; interviene un ‘accordo’ esplicito tra lo Stato richiedente e gli altri Stati membri, i quali si pronunciano esplicitamente, uno per uno, attraverso la Istituzione nazionale che la sua Costituzione indica ( parlamento o governo).

Alla luce di questa “solennità” è lecito chiedersi: quanta consistenza hanno le litanie sulla scarsa o mancata partecipazione democratica nella costruzione europea e quanto spessore democratico hanno le grida e lo sdegno di quegli Stati membri che si urtano e si offendono quando le Istituzioni europee – in nome e per conto degli altri Stati e dei popoli (i rispettivi parlamenti) – attuano un monitoraggio dei processi legislativi e della qualità dello “stato di diritto” di uno Stato membro? E’ il caso in questi mesi della Polonia. E’, per altri versi, il caso della Ungheria; ma è, per altri versi ancora, il caso dell’Austria; e via navigando dentro il dibattito politico e anche istituzionale dei Paesi membri. Oppure, drammaticamente in queste ore, è anche il caso di un Paese-Stato “membro candidato” (ancora?), come la Turchia!
E che dire, poi, dei “Discorsi” e dei “Richiami” – variamente autorevoli, tutti utili, qualcuno non indispensabile – ai “valori”?
Leggiamo-ascoltiamo (e scopriamo), dunque, anche l’articolo 2 del Trattato, intimamente connesso all’art. 49 sopra citato; dice: “L’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo. Dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini”.

Non ci sono commenti da fare; sarebbe un’offesa alle intelligenze dei lettori e delle lettrici, che possono spaziare in ogni verso per misurare la distanza tra i comportamenti politici e istituzionali nazionali e questi “impegni” solennemente assunti, al momento della richiesta di adesione alla “Unione” (in toto, e non ad una delle sue componenti che maggiormente “conviene”; ad esempio: il “mercato unico”).

(Forma e natura del negoziato di uscita)

Mentre scriviamo questo ‘Diario’ ci arriva una buona notizia: la nomina a capo negoziatore per la Unione Europea, del negoziato Brexit di Michel Barnier. La reazione del mondo finanziario e politico inglese, dicono i ben informati, è stata gelida. Il sig. Barnier è stato commissario europeo per il “Mercato interno e i servizi”, l’architetto delle riforme finanziarie nell’Unione, dopo la crisi del 2008, un europeista convinto che conosce dettagliatamente tutte le norme e i tecnicismi che regolano il Mercato interno e i servizi finanziari e gli accordi esistenti tra i 28 Stati membri.

La decisione fa seguito ad una pericolosa e non dignitosa discussione (e anche divisione) interna alle Istituzioni della UE: tra Consiglio europeo e Commissione europea (muto il Paramento europeo). Il Consiglio europeo, infatti – espressione degli Stati membri e geloso delle prerogative degli Stati e della concezione intergovernativa della integrazione europea – precedendo la Commissione Europea e senza consultarsi con essa aveva già designato un proprio negoziatore nella persona di un diplomatico belga, Didier Seeuws. L’intervento della Francia e dell’Italia, ha consentito alla Commissione di rientrare in campo, con la mediazione di non impegnare direttamente la persona del suo presidente – Jean Claude Juncker – ma nominando un rappresentate di alto livello, non attualmente membro della Commissione. L’Unione ha , dunque, già compiuto – da parte sua – il primo passo, e nella direzione giusta: garantendo – sia alla controparte (Regno Unito) sia agli Stati membri – la massima competenza del negoziatore. Ora risulta urgente che lo Stato – Regno Unito, che sia il suo parlamento o il governo sta ad esso decidere – invii la notifica della richiesta di recesso. Poi tocca al Consiglio europeo dei 27 Stati membri fare il secondo passo: “formulare gli orientamenti” sui quali l’Unione negozierà; l’Unione, non gli Stati membri, singolarmente. Quale è l’oggetto del negoziato? Per quanto attiene ad eventuali fatti o elementi patrimoniali, il negoziato attiene – come è noto- alla separazione dei rispettivi “patrimoni”; ma per quanto attiene ad eventuali “interessi” che le due parti ritengono di vicendevole utilità perseguire nel futuro, il negoziato parte da zero; e alla luce della “unicità” dei mercati e dei servizi finanziari nell’Unione: il negoziatore è unico, l’Unione. “Gli orientamenti del Consiglio”, pertanto dovranno prima di tutto scegliere ed indicare il modello di partnership che meglio risponde agli interessi dei 27 Stati membri, in quanto Unione. La cosa migliore sarebbe – per ambedue le parti – avere come riferimento un modello consolidato e noto: potrebbe essere quello dello “Spazio economico europeo” (See), del quale altri Stati europei sono già partner. In queste settimane – a partire dal giorno dopo il referendum- si è molto favoleggiato del cosiddetto “modello Norvegia”, sia sulla stampa europea sia su quella britannica. E’ appena il caso di ricordare che il modello di relazione tra la Norvegia e l’Unione europea comprende da una parte il vantaggio per la Norvegia di godere di gran parte delle norme europee sul Mercato unico e dall’altra l’accettazione delle quattro fondamentali libertà fondamentali della UE: libera circolazione delle persone, dei beni, dei servizi e dei capitali. Immaginiamo che la libera circolazione dei servizi e dei capitali e dei servizi siano di speciale gradimento per il Regno Unito; ma non la libera circolazione delle persone: sulla quale è stata condotta buona parte (con rilevanti dosi di falsificazione della realtà) della campagna pro Brexit (a tale specifico proposito, è appena il caso di ricordare un po’ di storia: nel 2004, quando L’Unione aprì le porte ai polacchi – e quando avrebbe potuto valersi della clausola che consentiva di ritardare l’applicazione del principio, cosa che fece la Germania – il Regno Unito procedette subito all’applicazione del principio della libera circolazione delle persone e, quindi, all’accesso dei lavoratori polacchi nel Regno Unito, per flessibilizzare il suo mercato del lavoro e guadagnare in competitività). Ma se al principio della libera circolazione delle persone, il Regno Unito ha espresso ed esprime non condivisione non potrà mai godere del benefici del Mercato Unico europeo: su tale questione, infatti, la Unione Europea non può ‘transigere’, pena la perdita del cuore della sua identità. Come si può vedere il “negoziato” sarà aspro, non facile, non indolore e neppure breve.

Anche da questo punto di vista si conferma la necessità di una rapidissima notifica del recesso: i 27 Stati membri della Unione, infatti, devono potersi riunire nei propri organi istituzionali e decisionali, con i propri membri effettivi ed affrontare il proprio destino e quello strategico dei propri popoli, con la determinazione e la tempestività necessari.

(scenari economici)

L’incontro di Ventotene non potrà, dunque, non dedicare un “pensierino” a Brexit: non per recriminare (non sarebbe dignitoso né per i tre grandi protagonisti della integrazione europea, né per il luogo e la memoria dei protagonisti storici che lì, nella dura e buia prigionia, hanno formulato il primo pensiero per la Unità europea, né per il Regno unito e i suoi popoli – anche per quella parte di essi che ancora vorrebbero esserne parte: la maggioranza degli Scozzesi e degli Irlandesi).

Ripartire da Brexit, significa prima di tutto focalizzare l’accentuazione della crisi economica dell’Unione causata dallo choc Brexit. ”Negli uffici delle istituzioni finanziarie della City si stanno disegnando gli scenari economici del dopo Brexit. E il quadro complessivo che ne esce è di concreta preoccupazione”, informava da Londra il corrispondente del ‘Corriere della sera’, Fabio Cavalera, l’11 luglio scorso. E sottolineava: “ … ora che il voto è alle spalle, i conti bisogna farli sul serio e non sono numeri di fantasia o sulle proiezioni virtuali. Due analisti dell’ufficio studi della Barclays, Michael Gavin e Aiay Rajadhyaksha, certificano che la contrazione degli investimenti è cominciata e che alla fine del 2016 sarà pari all’1,6%; ancora maggiore nel 2017 con un meno 2,6; il tasso di disoccupazione che si sarebbe dovuto attestare sul 5%, sarà più alto di oltre un punto, al 6,1”. In casa Italia, le analisi dell’Upb, l’ufficio parlamentare di bilancio, l’autorità indipendente che per statuto verifica le previsioni del governo certifica a sua volta: “una crescita nel 2016 dell’1,2%, come ipotizzato dal governo nel Documento di economia e finanza, appare non raggiungibile. In buona parte si tratta dell’effetto Brexit; le stime di crescita riguardano anche l’anno prossimo, si prevede una ripresa meno dinamica”. Di fronte alle manovre dilatorie, gli analisti formulano questo interrogativo: “e se la Gran Bretagna per limitare i danni dell’uscita dalla UE avviasse una politica aggressiva dal punto di vista monetario? Insomma se avesse ragione il vecchio saggio Henry Kissinger che sul ‘ Wall Street Journal’ definisce la Brexit ‘ una classica dimostrazione della legge delle conseguenze a catena non volute’” (Eugenio Occorso, “Tasse a buon mercato, l’ultima tentazione in vista della Brexit”, in ‘la Repubblica –Affari & Finanza- 25 luglio 2016)? Brutalmente, torna a farsi vivo lo spettro della strategia di una Gran Bretagna fuori dalle pastoie (le regole comuni) unioniste, evocato da Farage durante la campagna elettorale: un grande paradiso fiscale dentro il continente Europa. Mentre a Londra, il sindaco Sadiq Aman Khan – persona responsabile e lungimirante, attualmente forse l’unico dirigente politico e istituzionale degno di questo nome, in Inghilterra- si affanna a ricordare che “London is open”. E la premier scozzese – Nicola Sturgeon – organizza (17 agosto) una discussione pubblica, coinvolgendo circa 450 cittadini dell’UE che vivono in Scozia, “per spiegare loro il forte impegno del governo scozzese a proteggere il legame del suo Paese con l’Europa, dopo il sì della Gran Bretagna alla Brexit”.

Ecco altre, pressanti, ragioni per accelerare la “Notifica” del recesso (la premier May, intanto fa belle camminate sulle Montagne svizzere!) e iniziare un serio negoziato. Non per fretta ma per serietà: compiere gli atti conseguenti alle proprie iniziative. Un referendum consultivo e non obbligatorio, con il “quesito” fondamentale che conosciamo (si potevano sottomettere alla consultazioni altri tipologie di quesiti, come la modesta e piccola Grecia insegna!) rappresenta molto di più di una “intenzione”( dice l’art. 50: “lo Stato membro che decide di recedere notifica tale intenzione al Consiglio europeo”). I mercati delle monete e dei beni se sono resi conto con chiarezza e già presentano il conto agli Stati membri ed ai cittadini di questa Unione Europea (persino i Soci delle due “Borse” – di Londra e di Francoforte – dopo il via libera della “London Stock Exchange – hanno, in queste ore, proceduto alla fusione).

(more perfect Union)

Il 22 agosto, i tre massimi protagonisti di ‘questa’ Union Europea di 27 Stati membri, devono (devono!) sciogliere, di fronte alle opinioni pubbliche dei rispettivi popoli, il dilemma che pesa da sempre sulle ali di un areo che non riesce, appunto, a volare: “l’Europa unita è una mera associazione di stati per perseguire obiettivi di natura economica (comunità economica) oppure un’unione di stati per perseguire obiettivi di natura preminentemente politica (unione politica)?” (Sergio Fabbrini, “Ma chi negozia davvero con il Regno Unito?”, in: Il Sole-24 ore del 31 luglio 2016)

C’è, in effetti, di che essere spaventati della stanca e a volte furbastra reazione di tanti governi e cancellerie: dimenticano che sono proprio questi comportamenti e metodi politicistici alla base delle tendenze e delle concezioni populiste della democrazia. E non ci si venga a dire che il “tempo” serve per “sedimentare lo choc”, e che allo choc si risponde non con “visioni” ma con cose concrete (ho letto che in Germania, in questi giorni rispolverano un loro modo di dire: ”visionari dall’oculista”; sarebbe bene che prendano nota anche che in altri Paesi e culture, europei, si racconta di un malcapitato – chiamato erroneamente Pasquale dal suo aggressore – che prendeva sberle e ceffoni, ostentando noncuranza e dicendo: “e ch’è, sono forse Pasquale, io?).

Ora, è indubitabile che la integrazione europea sta prendendo molti colpi da qualche tempo: con una crescente intensità e da versanti differenziati, che, però, si cumulano; non vederli o non sentirli è manifestazione di miopia e sordità. Assistiamo, infatti, a reazioni diversificate, e poco comprensibili. Ad esempio: un giorno leggiamo che il ministro tedesco Schauble, nervoso e ipercritico verso la Commissione europea, minaccia una iniziativa da parte dei governi nazionali; un altro giorno lo stesso ministro (delle finanze) nega che l’Eurozona abbia bisogno di più integrazione, nello stesso tempo, però, rilancia la cosiddetta “Europa a due velocità”. Il ministro degli esteri della stessa Germania (Frank-Walter Steinmeier) dichiara (il 7 luglio) : “Ciò che ci possiamo aspettare da Londra è una road-map per avviare i negoziati per l’uscita e indicazioni su quanto si prefigurano; anche noi dobbiamo preparaci bene e il mio ministero ha già creato una taskforce”. Ma un altro giorno (20 luglio) apprendiamo che la cancelliera concede a Londra più tempo. Nel frattempo (il 9 luglio) il viceministro delle Finanze Jens Spahn – uomo di fiducia di Wolfgang Schauble e ascoltato membro della CDU (partito della cancelliera) – in una intervista, afferma: “L’idea che otto o dieci Paesi facciano un passo avanti sulla Difesa comune era già stata del generale De Gaulle, negli anni ’50. Noi vorremmo fare questo passo e costruire un esercito comune. Non è necessario che tutti partecipino subito”. C’è molta confusione sotto il cielo di Europa. E’ urgente dare un segnale di chiarezza e di ripartenza, non velleitaria e concreta.

“More perfect Union” è la formula che ha usato Obama nel discorso alla Convention democratica di Philadelphia. Mi piace prenderla in prestito: dà il senso del lavoro da fare, del lavoro fatto, di un approccio positivo, dell’urgenza non frettolosa, della visione necessaria e dell’urgenza dell’ora:
* Una strategia comune per la sicurezza. La domanda di Sicurezza non è una richiesta di guerre, non è un prurito malsano, non è di “destra”, non è “euro-scettica”, non è una misura settorialistica. I popoli europei hanno diritto (e bisogno) a un “Progetto europeo” della Sicurezza. Di che si tratta? E’ Difesa comune, ‘Intelligence’ comune, Frontiera esterna comune; una ‘lettura’ comune del mondo (quindi, attuazione del “compact migration”). Al suo interno, quasi con naturalezza, trova posto la comune accoglienza dei rifugiati (non per ‘buonismo’ ma per dovere verso il mondo) e una intelligente concezione del fenomeno migratorio (non per solidarietà, ma per ‘tornaconto’: vedi i tassi europei di invecchiamento e la conseguente crisi del welfare europeo). Nella conferenza stampa a Berlino, prima di ferragosto, la Cancelliera Merkel ha detto tante cose giuste sul terrorismo e altro, ma non ha evidenziato la Unione europea come luogo ed opportunità unici per dare sicurezza agli Stati membri: egemonia riluttante o distrazione politica? La recente (11 agosto 2016) proposta dei due ministri italiani – degli Esteri, Paolo Gentiloni e della Difesa, Roberta Pinotti – di una “Schengen della difesa” va nella giusta direzione ed è coerente con l’attuale Trattato; quindi immediatamente realizzabile: senza alcuna modifica agli articoli dei Trattati vigenti, basta la volontà politica di alcuni Stati membri.

• Eurozona. Esigenza non più procrastinabile di un Modello di leadership istituzionale dell’Unione Economica e Monetaria. La Banca europea (BCE), la chiede da tempo. Non lasciamola sola a governare una moneta comune.

• Il futuro come fatto culturale. Il “cuore” di Europa è spezzato tra due metà, due pulsioni; il suo “Pensiero” è diviso. La manifestazione più appariscente è quel “surplus di rabbia” che cova e, di tanto in tanto, esplode. Si può anche osservare – lecitamente e con fondamento – che persino gli Stati Uniti d’America è alle prese (e anche vittima) con questo fenomeno politico-antropologico. Vero, e allora? E’ tornata in campo e nelle vite delle persone e dei popoli la questione di “darsi un’anima”! Her Schauble, ha qualche idea in proposito?

• La potenza svogliata. Di tanto in tanto riemerge questa analisi/congettura della riluttanza della Germania e del tedeschi ad esercitare una positiva egemonia. Dalla felice intuizione di “Economist” che nel 2013 coniò la definizione di “egemone riluttante”, questa questione politica è diventata oggetto di dibattiti e analisi: dal “ Die Schuldfrage” di Karl Jaspers (1946 – “Il senso di colpa”); alla “ Germania troppo piccola per il mondo, troppo grande per l’Europa”; alla affermazione di Joschka Fischer: ”ci siamo svegliati (dopo la riunificazione) e improvvisamente ci siamo accorti di avere un ruolo da leader almeno in Europa, ma senza averne voglia”; alla Brexit, con la Germania da una parte e la Francia dall’altra senza più la Gran Bretagna, che faceva da scusa per non procedere nella integrazione. “Hic Rhodus, hic salta” – tradotto in inglese: “ prove what you can do, here and now”.

• Una penultima chance? ‘Diario’ ha letto di una ricerca realizzata dall’Ifop in 6 Paesi, per conto di “Institut Jean Jaurés” e di “Fondation européenne d’étude progressistes” (Feps). La ricerca registra che Brexit ha provocato in molti Paesi europei un nuovo senso di appartenenza: uno dei paradossi di questa strana storia. Cittadini che pensano sia meglio stare dentro l’UE:
Germania + 19%; Francia + 10; Belgio + 33; Italia + 4. Inoltre, nei Paesi tre fondatori della Unione: sono contro la organizzazione di referendum per un “leave”: 59 % in Germania, 54 %, in Francia e in Italia. Sono ‘messaggi in bottiglia’ in un mare tempestoso, raccogliemoli.

Il ritorno a Ventotene, come luogo e memoria (e l’Italia, come partner fondamentale) non sia, dunque, soltanto un appuntamento qualsiasi di mezzo agosto.