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Un’Europa che non può tornare indietro e non riesce ad andare avanti

Diario europeo assume, nel titolo odierno, una espressione di Roberto Napoletano (“Domenica”, il sole 24 ore, 18 settembre) nel suo ‘Memorandum’, in cui commenta la “Lectio” di Mario Draghi al Teatro sociale di Trento, in occasione del premio “Alcide De Gasperi-Costruttori d’Europa”, conferitogli il 13 settembre scorso. La sintesi di Napoletano è la fotografia dell’Unione europea, a Bratislava.

Dopo la “riunione” (Diario si impegna da oggi a non usare più termini quali “vertice” o “summit”, per non incorrere in plateali errori di forma e di sostanza!) di Bratislava, venerdì 16 settembre – sulla cui ‘agenda’ nel precedente intervento ci eravamo lungamente impegnati – invece di una puntuale e dettagliata analisi (che rinviamo ad un ‘diario’ successivo) desideriamo offrire alla riflessione dei lettori e delle lettrici la parte conclusiva della “Lectio” di Mario Draghi. Pronunciata, due giorni prima della riunione di Bratislava, ci si poteva augurare potesse costituire una ulteriore spinta alla costruzione di una nuova agenda dell’integrazione europea, la cui responsabilità politica sta sulle spalle dei capi di stato e di governo del 27 Paesi membri. Non pare, invece, che gli attuali dirigenti dei Paesi membri abbiano avuto il tempo di leggere e meditare le parole del presidente della Banca centrale europea.

“L’Europa può ancora essere la risposta?

La domanda è semplice ma fondamentale: lavorare insieme è ancora il modo migliore per superare le nuove sfide che ci troviamo a fronteggiare?

Per varie ragioni, la risposta è un sì senza condizioni. Se le sfide hanno portata continentale, agire esclusivamente sul piano nazionale non basta. Se hanno respiro mondiale, è la collaborazione tra i suoi membri che rende forte la voce europea.
Il recente negoziato sul cambiamento climatico sia di esempio. La questione globale può essere affrontata solo attraverso politiche coordinate a livello internazionale. La massa critica di un’Europa che parla con una voce sola ha condotto a risultati ben oltre la portata dei singoli paesi. Solo la spinta esercitata dai paesi europei che hanno presentato un fronte comune ha permesso il successo della conferenza sul clima di Parigi. Solo l’esistenza dell’Unione Europea ha permesso la costruzione di questo fronte comune.
In un mondo in cui la tecnologia riduce le barriere fisiche, l’Europa esercita la sua influenza anche in altri modi. La capacità dell’Europa, con il suo mercato di 500 milioni di consumatori, di imporre il riconoscimento dei diritti di proprietà a livello mondiale o il rispetto dei diritti alla riservatezza in Internet è ovviamente superiore a ciò che un qualsiasi Stato membro potrebbe sperare di ottenere da solo.

La sovranità nazionale rimane per molti aspetti l’elemento fondamentale del governo di un paese. Ma per ciò che riguarda le sfide che trascendono i suoi confini, l’unico modo di preservare la sovranità nazionale, cioè di far sentire la voce dei propri cittadini nel contesto mondiale, è per noi europei condividerla nell’Unione Europea che ha funzionato da moltiplicatore della nostra forza nazionale.

Quanto alle risposte che possono essere date soltanto a livello sovranazionale, dovremmo adottare lo stesso metodo che ha permesso a De Gasperi e ai suoi contemporanei di assicurare la legittimazione delle proprie azioni: concentrarsi sugli interventi che portano risultati tangibili e immediatamente riconoscibili.

Tali interventi sono di due ordini.

Il primo consiste nel portare a termine le iniziative già in corso, perché fermarsi a metà del cammino è la scelta più pericolosa. Avremmo sottratto agli Stati nazionali parte dei loro poteri senza creare a livello dell’Unione la capacità di offrire ai cittadini almeno lo stesso grado di sicurezza.

Un autentico mercato unico può restare a lungo libero ed equo solo se tutti i soggetti che vi partecipano sottostanno alle stesse leggi e regole e hanno accesso a sistemi giudiziari che le applichino in maniera uniforme. Il libero mercato non è anarchia; è una costruzione politica che richiede istituzioni comuni in grado di preservare la libertà e l’equità fra i suoi membri. Se tali istituzioni mancheranno o non funzioneranno adeguatamente, si finirà per ripristinare i confini allo scopo di rispondere al bisogno di sicurezza dei cittadini.

Pertanto, per salvaguardare una società aperta occorre portare fino in fondo il mercato unico.

Ciò che rende oggi questa urgenza diversa dal passato è l’attenzione che dovremo porre agli aspetti redistributivi dell’integrazione, verso coloro che più ne hanno pagato il prezzo. Non credo ci saranno grandi progressi su questo fronte e più in generale sul fronte dell’apertura dei mercati e della concorrenza se l’Europa non saprà ascoltare l’appello delle vittime in società costruite sul perseguimento della ricchezza e del potere; se l’Europa, oltre che catalizzatrice dell’integrazione e arbitra delle sue regole non divenga anche moderatrice dei suoi risultati. È un ruolo che oggi spetta agli stati nazionali, che spesso però non hanno le forze per attuarlo con pienezza. È un compito che non è ancora definito a livello europeo ma che risponde alle caratteristiche delineate da De Gasperi: completa l’azione degli Stati nazionali, legittima l’azione europea. Le recenti discussioni in materia di equità della tassazione, e quelle su un fondo europeo di assicurazione contro la disoccupazione, su fondi per la riqualificazione professionale e su altri progetti con la stessa impronta ideale vanno in questa direzione.

Ma poiché l’Europa deve intervenire solo laddove i governi nazionali non sono in grado di agire individualmente, la risposta deve provenire in primo luogo dal livello nazionale. Occorrono politiche che mettano in moto la crescita, riducano la disoccupazione e aumentino le opportunità individuali, offrendo nel contempo il livello essenziale di protezione dei più deboli.

In secondo luogo, se e quando avvieremo nuovi progetti comuni in Europa, questi dovranno obbedire agli stessi criteri che hanno reso possibile il successo di settant’anni fa: dovranno poggiare sul consenso che l’intervento è effettivamente necessario; dovranno essere complementari all’azione dei governi; dovranno essere visibilmente connessi ai timori immediati dei cittadini; dovranno riguardare inequivocabilmente settori di portata europea o globale.

Se si applicano questi criteri, in molti settori il coinvolgimento dell’Europa non risulta necessario. Ma lo è invece in altri ambiti di chiara importanza, in cui le iniziative europee sono non solo legittime ma anche essenziali. Tra questi oggi rientrano, in particolare, i settori dell’immigrazione, della sicurezza e della difesa.

Entrambi gli ordini di interventi sono fondamentali, poiché le divisioni interne irrisolte, che riguardano ad esempio il completamento dell’UEM, rischiano di distrarci dalle nuove sfide emerse sul piano geopolitico, economico e ambientale. È un pericolo reale nell’Europa di oggi, che non ci possiamo permettere. Dobbiamo trovare la forza e l’intelligenza necessarie per superare i nostri disaccordi e andare avanti insieme.

A tal fine dobbiamo riscoprire lo spirito che ha permesso a pochi grandi leader, in condizioni ben più difficili di quelle odierne, di vincere le diffidenze reciproche e riuscire insieme anziché fallire da soli”.

Riuscire insieme, anziché fallire da soli!