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Trullo, un museo a cielo aperto nella periferia di Roma

Tra‘Street art’ e poesia il quartiere rivive di nuova linfa.
Piove. Dai vetri sporchi dell’autobus si intravedono accese note di colore che stridono con il bianco del cielo. Stralci di poesie ed enormi figure campeggiano sui muri scrostati dei palazzi. Sono i murales del Trullo, quartiere periferico a sud ovest di Roma, tra Magliana e Portuense. Un museo a cielo aperto dedicato «agli artisti di se stessi», a quei passanti con il «cuore ballerino», capaci ancora di versare lacrime d’emozione. Un’ ode alla borgata da parte di chi lì, «in quel giardino periferico» (noto più che altro per fatti di cronaca fino a non molto tempo fa) ci è sempre vissuto: «Trullo, l’unico modo di scriverti è viverti sul baratro della strada. Sei l’abbraccio di una madre al figlio in cui perdersi per ritrovarsi come viandanti», si legge su una parete colorata di un giallo tenue come il timido raggio di sole che tenta di affacciarsi tra le nuvole rigonfie di pioggia.

Giovani donne, grandi occhi, animali, madonne, fiori, mare, navi e pesci. Sono questi i soggetti della Street Art del quartiere che rivive di nuova linfa grazie ai versi in romanesco dei Poeti der Trullo («Siamo in sette e siamo un coro che vuole cantare l’amore e la rabbia, l’esperienza e la meraviglia, la provenienza e il viaggio») e alle pennellate vivaci dei Pittori Anonimi del Trullo, un gruppo di residenti che, armati di vernice, hanno deciso di ridare colore a quell’angolo di città (anche qui c’è un monumento dedicato ai caduti della seconda guerra mondiale) sprofondato nell’oblio.
Così, vicino alle finestre, ai panni stesi e ai prati che crescono incolti, sulle saracinesche chiuse dei negozi e addirittura accanto alla carcassa di un vecchia motocicletta, spuntano massime che fanno da didascalie a immagini variopinte. «Oggi dipingo, scrivo e sento di poter cambiare quelle strade facendo parlare il cuore. Sono e rimango uno qualunque, così chiunque potrà fare la mia strada» scrive Giulia, con lo spray nero, su un enorme muro verniciato di rosa.

«La bella che è prigioniera ha un nome che fa paura: Libertà» leggiamo accanto a una donna con un copricapo indiano dalle piume colorate. «Seppelliscimi: augurio di sopravvivere meno di chi si ama per non viverne la mancanza» è impresso, invece, a ridosso di un mare turchese affollato di pesci. Quello stesso mare in cui un uomo e una donna si ancorano «per navigare altrove». Perché, come si legge poco più in là, «il viaggio è la ricerca di un coraggio clandestino che non conosce muri». Un viaggio che diventa esso stesso «meta», «vita», in cui ci capita di incontrare persone che «come stelli cadenti, lasciano a noi qualcosa di grande dando risposte a mille domande».

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