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Costruire un progetto condiviso per la città

Si è aperto mercoledì 5 ottobre, con un incontro che è solo il primo di una lunga serie, il confronto sulle criticità e le opportunità del territorio tra i Presidenti dei Municipi, i loro assessori all’Urbanistica e ai Lavori pubblici e l’assessore all’Urbanistica e Infrastrutture di Roma Capitale Paolo Berdini.
Due le tematiche su cui impegnare l’amministrazione del territorio individuate dall’assessore Berdini: il completamento delle duecento convenzioni urbanistiche in essere, la verifica delle criticità e l’ultimazione dei Piani di Zona del secondo PEEP. Lavorando, nel frattempo, a un progetto condiviso per la città imperniato su tre obiettivi di fondo: riavvicinare le periferie fra di loro e al centro mediante una rete di trasporto pubblico su ferro con la realizzazione di nuove linee tranviarie, recuperare e destinare a nuovo uso gli spazi abbandonati —come ad esempio il Forlanini, il Santa Maria della Pietà, il San Giacomo— rivedere il protocollo di intesa con Ferrovie e chiudere, finalmente, l’Anello ferroviario.
L’assessore ha poi sottolineato la necessità di promuovere sinergie tra pubblico e privato per creare nuove opportunità di crescita e valorizzazione, come per esempio la realizzazione di una Città della Scienza nei terreni già espropriati a Tor Vergata, un polo di ricerca e di studio da mettere a servizio degli studenti e della città tutta.
I Municipi, a cui l’assessore pensa di attribuire in un prossimo futuro la responsabilità e le risorse economiche per la gestione complessiva della manutenzione ordinaria, hanno poi illustrato le difficoltà e i problemi rilevati -primi fra tutti la carenza di risorse umane, la necessità di un miglior coordinamento degli interventi infrastrutturali e di un più ampio e articolato accesso ai dati e alle informazioni- e la discussione si è incentrata sulle strategie e le pratiche da adottare per la loro soluzione.

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Il cantiere del Coordinamento Periferie

Periferie Cantiere Aperto… ovvero inclusivo, che si apre al confronto presentando un’idea del come intervenire e del come collaborare insieme con le Istituzioni, con le università e i centri ricerca, con il mondo del lavoro e delle associazioni, con le Imprese sociali e private, e con tutti i soggetti che intervengono nella quotidianità del  nostro vissuto day-by-day continuando ad essere presenti nei nostri territori.

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giovedì 26 maggio 2016 – ore 16.00 – Città dell’Altra Economia

Largo Dino Frisullo-Testaccio

Nel corso di questi anni, salvo rare e positive eccezioni, abbiamo assistito al connubio periferie uguale emergenze. La risposta è sempre stata, nel migliore dei casi, una mera amministrazione del problema. Spesso con interventi che avevano il solo scopo del ripristino di sicurezza e legalità e quindi senza nessuna capacità progettuale di indirizzo e di scelta che avesse l’orizzonte lungo e work in progress per la città del futuro. Le periferie, vecchie e nuove, in questi anni hanno subito mutazioni, cambiamenti, migrazioni che non conosciamo. Un fiato corto che relega il tema da affrontare al come “sedare” conflitti, esplosioni e violenze che di volta in volta si verificano. Una risposta emergenziale che non giunge mai al come intervenire. Programmazione, pianificazione, inchiesta, analisi dei territori sono concetti ormai, da tempo, non frequentati pur essendo essenziali per la rigenerazione urbana di cui tanti parlano. Noi ci siamo conosciuti sul campo nel marzo 2015 quando organizzammo 50 piazze contro le mafie, purtroppo unica e pubblica risposta a mafia capitale. E’ da questo rapporto che abbiamo condiviso la necessità di dire la nostra sul tema periferie. Nella nostra proposta quei concetti li abbiamo usati e declinati avendo ben presente che il cambio di paradigma che riteniamo necessario e urgente richiede disponibilità culturale, conoscenza delle situazioni, condivisioni e assunzioni di responsabilità. Nel nostro dna c’è la consapevolezza della necessità di collaborare insieme istituzioni, società civile e settori produttivi a forte valenza sociale. Concetti che ci hanno consentito di cooperare e di incontrare altre competenze e passioni che esistono e che ci hanno arricchito. Inviteremo i candidati sindaci a venire ad ascoltare perché le valutazioni e il “da fare” spetta a loro. Affermiamo che su questi contenuti c’è la nostra disponibilità alla collaborazione, con chiunque sarà eletto o sarà all’opposizione.

Il racconto delle periferie

Corviale, Statuario, Torbellamonaca, Torpignattara, TorreSpaccata

VIDEO DELL’EVENTO

 

Fonte : romainpiazza.it apri l’articolo originale



Progettare città per le persone

La Conferenza Episcopale Italiana (CEI) ha lanciato il Manifesto “Progettare città per le persone” con cui invita tutti i cittadini, gli amministratori e i decisori politici, i professionisti e le imprese, a far proprie le istanze contenute nell’enciclica Laudato si’ di Papa Francesco.

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Come ripensare le città ritrovando un’unica identità urbana

Il «rammendo delle periferie», secondo la suggestiva formula coniata da Renzo Piano, pare sia opera pubblica destinata a divenire punto programmatico del governo Renzi. Ed è dalla probabilità d’una sua concreta attuazione che viene il decisivo interesse nazionale di questa impresa, al cui fondo credo ci sia il voler riconoscere a quelle stesse periferie il rango d’inedite e autonome città storiche. Un riconoscimento che appare del tutto fondato, visto che la grande maggioranza degli uomini (il trend è infatti planetario) vive oggi in periferie urbane. Ma che male si adatta, fino a essere errore, all’ultramillenario quanto indissolubile e meraviglioso insieme di vere città storiche e di vero paesaggio storico che fanno dell’Italia un unicum nel mondo intero, un insieme in cui le periferie sono quasi sempre infelice o infelicissima presenza; non storica, bensì, per dirla con Alexandre Kojéve, «post-storica». Per quale ragione un grande architetto nato in Italia commette l’errore di non considerare il nostro Paese in primis per la sua facies storica? Perché il suo non è un errore, bensì la semplice presa d’atto, più o meno inconsapevole, del completo fallimento delle politiche urbanistiche finora adottate nel Paese. Un fallimento originato dalla distinzione – sempre presente nei piani regolatori, ancor più, dopo il 1972, dal passaggio alle Regioni delle competenze in materia urbanistica – tra un centro storico rigido e immodificabile e una periferia (post-storica) al contrario flessibile e modificabile; correlando infine il tutto con un’integrazione di funzioni più o meno variamente articolate, ma sempre studiate in modo da far salvo il principio che la flessibilità della moderna periferia post-storica possa compensare la rigidità del centro storico. Tutto ciò con il risultato d’aver creato una crescita metastatica delle periferie intorno ai centri storici, portando infine il tutto a un comune degrado. Il degrado oggi sotto gli occhi di tutti.
Prima però credo vada sottolineato come la crescita metastatica delle periferie rispetto ai centri storici sia avvenuta in Italia soprattutto nell’ultimo mezzo secolo, cioè proprio nel momento stesso dell’avvento anche da noi della cosiddetta scienza urbanistica, la stessa che diceva d’avere in mano le carte per creare «l’uomo nuovo della Cité radieuse».
Evidentemente perché non erano in grado di capire, gli urbanisti di allora, che l’uomo nuovo era una balla di Le Corbusier e non la sola dell’architetto francese; il suo «modulor» di 2 metri e 40 d’altezza è infatti stabulario e del tutto funzionale «all’uomo nuovo» della speculazione edilizia, non certo all’uomo nuovo d’un nuovo ordine democratico. Balla passata in cavalleria perché mezzo secolo fa il ritardo culturale del Paese era immenso, ma con ancora dei tratti d’ingenuità, cioè non ancora completamente incanaglito verso furto e arroganza come ormai è oggi; e balla perciò fatta ingenuamente propria dalle Regioni, almeno nei primi tempi della loro istituzione, nel 1970; le stesse Regioni che al posto della Cité radieuse ci hanno ammannito nel vero, e direi inevitabilmente, le periferie di cui sopra.

Le ragioni del degrado delle periferie
Tutto ciò premesso, proviamo a cercare le ragioni per le quali un problema di tale evidenza e di così decisiva importanza per il futuro stesso dell’Italia e delle sue giovani generazioni è venuto lievitando in oltre mezzo secolo senza che mai lo si sia, se non risolto, almeno affrontato. Ragioni che sono numerosissime e che provo qui a citare in ordine sparso, ovviamente saltandone per sintesi alcune.
Prima ragione, è il gravissimo ritardo culturale in cui vive oggi il Paese e di cui ho appena detto. Quello soprattutto attestato dalla nostra classe politica che, proprio in causa della sua impreparazione, sempre più è andata scartando dai suoi «doveri» (Mazzini) la realizzazione di tutto quanto fosse complesso da elaborare sul piano delle scelte rispetto a ciò che è pubblico. Quindi mai si è preoccupata di predisporre razionali, coerenti e moderne politiche industriali, agricole, energetiche e quant’altro, come di mettere a punto piani a lungo termine su temi civili e sociali fondamentali quali istruzione, ricerca scientifica, ambiente, giustizia, fisco, sanità, pensioni, mobilità viaria e ferrotranviaria, urbanistica, salvaguardia del patrimonio storico e artistico, eccetera, per invece promuovere e autorizzare la politica economica più semplice, stupida, dannosa e redditizia che c’è: la speculazione edilizia. Ciò per assicurare il lavoro alla popolazione italiana (ma un lavoro, oltretutto infinitamente meno dannoso sul piano socio-economico e ambientale, è anche spostare le pietre da una riva all’altra d’un torrente, come Keynes ci ha insegnato), dove il far lavorare la popolazione fuori da un qualsiasi disegno razionale e coerente per il futuro del Paese ha reso la nostra classe politica compartecipe, non solo della devastazione dell’ultramillenario paesaggio urbano, agricolo e naturale del Paese, ma anche della cementificazione dei suoli, quindi della loro impermeabilizzazione, perciò principale responsabile, sempre la nostra classe politica, anche del dissesto idrogeologico del Paese, quello che sta producendo disastri ambientali con cadenza
sempre più ravvicinata nel tempo e sempre più diffusa sul territorio.
Seconda ragione, la sostanziale incompetenza della nostra università a formare i quadri amministrativi (dai soprintendenti, ai funzionari regionali e comunali) che dovrebbero risolvere – in via tecnica – l’immenso problema organizzativo, giuridico, tecnico-scientifico, urbanistico, viario e architettonico del rapporto tra città storica, periferia e territorio. Noto è che la recente introduzione di nuclei di valutazione della produzione scientifica dei docenti incardinati nelle nostre università ha evidenziato come molti di loro, specie quelli afferenti alle sedi di provincia, abbiano presentato titoli bibliografici dichiarati da quegli stessi nuclei di valutazione irricevibili, perfino articoli sulla cronaca locale del «Resto del Carlino» o sul bollettino della Comunità montana. Mentre, per restare al tema della tutela del patrimonio storico e artistico, sono stati di recente attivati corsi universitari di restauro dei beni culturali affidandone la direzione a docenti che non hanno mai toccato un’opera d’arte in vita loro, né hanno una bibliografia di specie, tanto da essere stati bocciati agli ultimi concorsi da professore ordinario. Da ciò l’evidente impossibilità che un’istituzione universitaria di tale modestissimo livello possa formare persone in grado di dar risposta al decisivo quesito sotteso al nostro vivere in un Paese, come è l’Italia, colmo fino all’inverosimile di storia: quale sia il senso della presenza del passato nel mondo d’oggi.
Terza ragione, a ribadire quanto appena detto, l’insensato numero dei circa 250.000 laureati in architettura e urbanistica (più o meno uno per kmq sul totale dei 301.340 kmq del territorio italiano, togliendo laghi, fiumi e inabitabili monti e valli) prodotti fino a oggi dall’università italiana. Oltretutto, architetti e urbanisti in gran parte formati secondo il principio di Bruno Zevi, per il quale il «nuovo» costruito non deve avere rapporto alcuno con il «vecchio». Una posizione illustrata nel Manifesto dell’architettura organica del 1945, testo fondativo d’una nuova scuola d’architettura, di cui Zevi era magna pars, che trovava forma e funzione nell’ambiente naturale, appunto l’architettura organica teorizzata dall’architetto statunitense Frank Lloyd Wright. Sfuggiva evidentemente a Zevi e ai suoi che, in Italia, la natura non è il luogo mistico di un Walt Whitman o di un Thoreau, bensì è un «ambiente culturale» indisgiungibile da un’ultramillenaria e infinitamente ramificata storia di sedimentazioni di civiltà. Quindi Zevi e i suoi non si resero conto di come, in Italia, da sempre si fosse costruita un’architettura che, per appartenere alla natura, quindi essere organica, mai aveva avuto bisogno di far scorrere al proprio interno una cascata d’acqua, come la «Casa Kaufmann» di Wright, peraltro edificio semi-inabitabile perché troppo umido; e si può andare, per l’architettura «naturalmente organica» italiana, dai Templi di Tivoli all’intera Venezia, a tutte le città storiche che ornano, intatte fino a qualche decennio fa, i profili delle nostre colline in forma di umanissime concrezioni nello stesso colore della terra su cui poggiano per aver da lì tratto i loro materiali da costruzione. Mai dimenticando, però, di là da questo esiziale errore culturale di Zevi e dei suoi, i tentativi svolti da alcuni architetti del secondo dopoguerra per recuperare un rapporto con le preesistenze storiche, come fecero Gustavo Giovannoni, Giuseppe Pagano, Roberto Pane, Ludovico Quaroni, Mario Ridolfi o Saverio Muratori, per dirne alcuni.
Ciò a conferma di come l’aggressione al paesaggio e alle città storiche avvenuta in Italia nell’ultimo mezzo secolo non possa essere attribuita solo alla terribile miscela tra impreparazione culturale, ignoranza della Storia e volontà di potenza soi-disant creativa dei molti, troppi architetti. Decisiva è stata infatti anche la corresponsabilità d’una insaziabile speculazione edilizia, d’una classe politica troppo spesso ignorante e corrotta, ovvero arrogante e dirigista, e di masse popolari ingenuamente persuase che il comfort piccolo-borghese dei condomini equivalesse al bello.
Quarta ragione, la generale e bovina osservanza alla «istanza storica» (1952) della Teoria del restauro di Brandi. Una posizione per molti versi fondata, quando si tratta d’una lacuna d’un dipinto. Assai più problematica da difendere quando si parli di architettura. Un errore fu infatti la rigida posizione presa da Brandi, sia nell’assurda condanna (ex post) della ricostruzione tal quale del campanile di San Marco realizzata nel 1912 al seguito dell’improvviso crollo dell’originale, sia nella rigida, quanto di nuovo assurda, opposizione al rifare uguale il cinquecentesco ponte di Santa Trinità di Bartolomeo Ammannati, fatto brillare nel 1944 dall’esercito nazista in ritirata da Firenze. Per fortuna campanile e ponte furono ricostruiti tal quali, ma quello stesso principio ideologicamente storicista è stato invece fatto valere per la ricostruzione delle città e dei paesi distrutti da calamità naturali. Al posto di rimetterne in piedi tal quali case e cose, così da restituire a quelle comunità ferite e umiliate almeno il ricordo della loro così brutalmente perduta identità storica, la consueta miscela di soprintendenti, architetti, urbanisti, restauratori e politici (i soliti formati nelle nostre università) ha provveduto alla costruzione di edifici «nuovi», perciò in pace con la «Storia».
Dalle mortuarie casette tutte uguali del dopo-Vajont, alla tanto ideologica quanto velleitaria (e anche un poco fessa) «nuova Gibellina», alla ricostruzione in squallidi condomini, ossia in villette geometrili, tanto dell’Irpinia quanto delle zone tra Umbria e Marche, fino alle sciagurate new towns dell’Aquila e al criminale abbandono a se stessa della città storica – lasciata, dopo il terremoto del 1999, a sciogliersi alla pioggia, al vento, alla neve e al sole –, le istituzioni (soprintendenze, università, assessorati regionali e comunali ecc.), nella loro incapacità e incompetenza, hanno preferito dibattere per anni su temi tanto ideologici quanto privi di veri fondamenti culturali («com’era, dov’era, ma non com’era, lo facciamo stilistico, no post-moderno», e così via farneticando), perché nel vero del tutto impreparate a dare risposte rapide, razionali e coerenti ai cittadini circa un problema ormai endemico in Italia, le distruzioni e le morti provocate, lo ripeto, dalle catastrofi ambientali, d’origine idrogeologica o sismica.
Quinta ragione, la completa farraginosità del quadro legislativo che oggi governa l’urbanistica in Italia. Quello generato dall’ingresso nel 1970 delle Regioni nella politica nazionale. Regioni avviate in grande ritardo rispetto al 1948 della Costituzione che già le prevedeva, quindi non create sulla spinta morale e civile di quegli anni (e qui si torna alla «Costituzione inattuata» di Piero Calamandrei: come sarebbero state le Regioni se varate subito dopo il 1948, sotto il diretto patrocinio dei padri costituenti?). Bensì Regioni avviate sull’onda del cosiddetto «Sessantotto», il movimento che allora in molti credemmo una rivoluzione, mentre era solo l’ultimo sussulto agonico della civiltà occidentale definitivamente vinta dal pop planetario della società post-storica di massa. Quindi Regioni in un primo momento determinate a creare un (sessantottesco) «regno di utopia», vale a dire un nuovo e, appunto, rivoluzionario modello di democrazia diretta, antitetica a quella dello Stato centrale, che in breve si è però rivelato una vana promessa cui si era del tutto incapaci di dare concretezza organizzativa e culturale. Ed è questo un passaggio delicatissimo per il generale tema della tutela del patrimonio storico, artistico e del paesaggio italiano, come del futuro stesso del Paese, passaggio che vede le Regioni assumere una posizione di raddoppio dello Stato centrale, con la delega data loro, nel 1972, della potestà legislativa in materia urbanistica e, nel 1977, in materia ambientale; pensando, sempre le Regioni, di correggere inefficienze e errori dello Stato con il varo d’un rilevante numero di iniziative di decentramento, spesso formalizzate in specifiche leggi.
Una stagione tra utopia, demagogia, dilettantismo e improvvisazione durata una decina d’anni, passando poi, le stesse Regioni, a promulgare leggi in difesa dei ben più fruttuosi e concretissimi interessi clientelari di speculazione edilizia e piccoli proprietari, fin quasi rasentando la demenza, come la legge della regione Liguria che avrebbe consentito di costruire fino a tre metri dalle rive dei torrenti, legge di qualche mese fa e non varata solo in grazia (si fa per dire) della recente e ennesima e disastrosa alluvione. Mai dimenticando però alcuni esempi virtuosi, come i recenti piani paesistici della Puglia e della Toscana, quest’ultimo per molti versi eroico, a onore di chi l’ha così pervicacemente voluto, Anna Marson.
Infine – ma di ragioni per spiegare il completo fallimento della costruzione delle nuove periferie in Italia ce ne sarebbero molte altre – aver fatto le Regioni verbo ideologico della suddetta rigidità dei centri storici rispetto alle periferie, nel nome d’una puerile idea di conservazione a oltranza dell’esistente. L’idea inverata nella politica fatta solo di vincoli e divieti di cui può essere simbolo l’Emilia-Romagna dei primi anni Settanta, politica il cui principale effetto è stato d’aver museificato i centri storici ottenendo la fuga della gran parte dei residenti. Basti, per dire in concreto del fallimento di quella politica, che dagli inizi degli anni Settanta si è avuta nei centri storici italiani una diminuzione di circa il 60% di abitanti e attività produttive. La stessa che passa al 100% nelle molte migliaia di piccoli comuni ormai in via di abbandono in tutt’Italia. Uno spreco di risorse umane ed economiche: basti il problema immobiliare, che grida davvero la vendetta di Dio.

Un’idea di Cavour: le grandi regioni
Soluzioni? Prima cosa, abolire subito le attuali Regioni, portandole a numeri sensati e razionali, ad esempio mutuandone le dimensioni da quelle degli Stati pre-unitari; e sarebbero le stesse che con grande lungimiranza volevano istituire Cavour e Cattaneo al momento stesso dell’Unità d’Italia, ben capendo le difficoltà strutturali nel realizzare quell’Unità, le stesse ancora oggi sotto gli occhi di tutti, peraltro. Secondo, riaffidare allo Stato centrale il compito sia di indicare le linee guida delle politiche urbanistiche, sia di provvedere al coordinamento della loro messa in opera, sia infine di sovrintendere alla verifica dei loro risultati applicativi. Tutto ciò sempre conservando per sé (lo Stato) un ampio potere di censura. Dopodiché, resettare (di nuovo lo Stato) l’attuale quadro legislativo relativo a tutela del patrimonio storico e artistico, ambiente, paesaggio e urbanistica, semplificandolo radicalmente e finalizzandolo a essere un unico strumento organizzativo, così – tra l’altro – da poter favorire con facilità una armonica ricongiunzione tra città storica e periferia, e di questa con ambiente e paesaggio.
Favorire come? Facendo tornare nelle città – a partire dai centri storici – le attività lavorative oggi in genere confinate nelle estreme periferie, quando non disperse senza alcun senso nelle campagne, quindi facendo tornare dentro le città industrie, opifici e quant’altro dia concreta occupazione a operai, impiegati e dirigenti. Il che porterebbe a ridisegnare un rapporto armonico tra nuovo e vecchio costruito, e di questo con il paesaggio, aprendo in tal modo – soprattutto ai giovani – immensi spazi creativi progettuali, con la formazione di molte migliaia di posti di lavoro. Ridisegnare quel rapporto significherebbe, infatti, riprogettare le periferie ponendone le funzioni abitative e i servizi in diretto rapporto con i centri storici; ma al tempo stesso riprogettare i centri storici facendo dei vincoli non più, come è oggi, sempre meno sopportabili provvedimenti solo in negativo, ma trasformandoli in indicazioni in positivo per la progettazione di un nuovo compatibile per forme, tipologie, materiali e quant’altro con l’esistente storico. Quel nuovo costruito che va comunque realizzato per non far morire il «vecchio» patrimonio edilizio italiano di troppo storicismo. Si tratterebbe poi di:
– restituire alla coltivazione il terreno agricolo oggi occupato dai capannoni industriali (dismessi e non) così anche riconsegnando alle città i loro confini, ovvero il loro contesto paesaggistico;
– poter esercitare i cittadini un controllo diretto e immediato sulle emissioni inquinanti di opifici attivi sotto il loro naso;
– far abitare le persone vicino ai luoghi di lavoro, perciò riportando i consumi alimentari, vestiari, eccetera, nei «negozi di quartiere», così come favorendo la creazione di servizi culturali e civili, quali biblioteche, cinema e teatri;
– riportare gli uffici pubblici nelle città, dalle scuole primarie e secondarie, all’università, agli uffici comunali;
– ridurre drasticamente il traffico veicolare privato;
– smettere di dare la solita, ideologica e demagogica e quasi sempre fallita in partenza destinazione museale all’immenso patrimonio immobiliare demaniale di palazzi storici, rocche, caserme, ospedali obsoleti, mercati coperti dismessi, eccetera, progettandone un riuso di concreta utilità sociale;
– perciò favorendo un riuso che inizi dall’insediare in quelle stesse caserme, rocche ecc., le predette attività lavorative, ovvero trasformando le solite rocche, caserme, eccetera, in unità abitative.
Per fare un solo esempio – pur se poco trendy rispetto alle attuali politiche talebane di tutela – una delle principali ragioni della conservazione del Palazzo Ducale di Mantova viene dal suo essere stato ininterrottamente abitato. Dai Gonzaga, che lo fondano, e lo abitano fino al Settecento con i loro famigli o le loro truppe, per poi divenire residenza teresiana, fino a quando, dopo l’Unità, viene occupato dagli «sfollati», tanto che, come mi raccontava tempo fa una «vecchia» soprintendente di Mantova, Giuliana Algeri, prima di diventare negli anni Venti del Novecento l’attuale (e deserto) museo, vi vivevano circa 3.000 persone.

Tornare a una “cultura vissuta”
Obiettivo di questa possibile e auspicabile azione di tutela attiva delle città e del paesaggio – tutela, ribadisco, finalmente non museificante – è il ritorno delle città (centri storici e riconnesse periferie) e dei paesaggi a luoghi di vita, quindi luoghi di relazioni civili, sociali e economiche. Il ritorno a una «cultura vissuta» aperta in mille diversi ambiti di pubblica utilità. Ambiti tutti da progettare e che sono formativi, ambientali, giuridici (si pensi al delicatissimo tema della legittimità degli espropri), economici, fiscali, sociologici, agricoli, idrogeologici, infrastrutturali, storico-artistici, eccetera, fino alla grande sfida d’una azione architettonica e ingegnerile orientata a un riuso compatibile dell’esistente storico, quindi alla ricerca scientifica nella domotica, nelle energie rinnovabili, nei sistemi di trasporto leggero (vettori, loro fonti energetiche e vie di transito) per raccordare rapidamente i piccoli paesi in via d’estinzione con i luoghi di lavoro delle città, così da ovviarne lo spopolamento, fino alla conservazione preventiva e programmata del patrimonio artistico in rapporto all’ambiente, in primis la prevenzione del patrimonio monumentale, o più semplicemente edilizio, dal rischio sismico e da quello idrogeologico.
Sarà questa la ratio sottesa ai rammendi di Renzo Piano e alle future politiche di sviluppo territoriale del governo Renzi? Dar corpo a un grande «progetto nazionale» mirato a realizzare un coerente e razionale riassetto del territorio italiano attraverso una sua de-cementificazione? Un progetto cioè mirato alla fondazione d’una nuova e inedita «ecologia culturale»? Sarà perciò il contrario d’un maquillage estetizzante teso a mascherare ultradecennali e gravissimi errori progettuali, culturali e politici, economici e sociali, errori di cui oggi sono vittime soprattutto le giovani generazioni, come lo saranno ancor più le future, quando nulla dovesse cambiare?
Lo scopriremo. Tenendo però già adesso conto di due cose. Una, l’illuminata decisione di Brunello Cucinelli d’acquistare un piccolo e abbandonato paese storico dell’Umbria, Solomeo, facendone la sede della propria industria, con il risultato che gli operai tornano alla sera malvolentieri a rinchiudersi nei condomini di Perugia, dove perlopiù abitano. L’altra, che se i rammendi di Renzo Piano fossero rivolti solo a mascherare gli errori di cui sopra, sarebbero l’ennesima bugia raccontata agli italiani. Bugia dalle gambe corte, anzi cortissime, perché si risolverebbe nell’applicare alberi e alberelli a vecchi e nuovi condomini speculativi, magari verticali piuttosto che orizzontali, a dipingere di verde i container o i viadotti dismessi, a decorare la facciate in cemento con stecche di legno «ecologico» e così via. Si risolverebbe, cioè, nella definitiva resa del Paese alla speculazione edilizia. Ricordiamolo, industria in gran parte nelle mani di camorra, ‘ndrangheta, sacra corona e mafia. Nel Nord Italia, nel Centro Italia, nel Sud Italia e nelle isole.
Bruno Zanardi insegna Teoria e tecnica del restauro all’Università di Urbino «Carlo Bo». Questo suo saggio, che pubblichiamo per gentile concessione del Mulino, la rivista di cultura e di politica diretta da Michele Salvati, fa parte del dibattito intitolato «Abuso di territorio?».

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Radici nel cemento – Agricoltura in città

Uno dei documentari, in onda tutti i venerdì, del regista Guido Morandini per RAI EXPO della serie EXPERIA – VIAGGIO IN ITALIA NELL’ANNO DELL’EXPO il 24 luglio alle 23.55 su RAI 2.
Un viaggio tra utopia e realtà, tra Roma e Torino visti come comuni agricoli alla scoperta di fattorie urbane, orti sui tetti, architettura e cultura del cibo. Architetti e agricoltori affrontano il dilemma di un futuro metropolitano ancora senza una chiara risposta : da una parte l’agricoltura che entra nella città per salvare il suolo coltivabile confinante con le periferie, dall’altra le invenzioni necessarie per far attecchire le radici nel cemento, serre, orti e giardini pensili che timidamente occupano e bonificano coperture di cemento o si inerpicano sulle facciate delle abitazioni. Un racconto alla ricerca di storie vere che lascia, pur nella sua incompletezza, molti spunti ed un messaggio aperto: prima di costruire nuovi palazzi pensiamo al futuro di un patrimonio costruito e naturale che esiste nell’indifferenza e nell’abbandono. Questo racconto è stato ispirato anche dalla storia della rinascita di Corviale come simbolo, come monito per le semplificazioni ideologiche o tecnicistiche: per immaginare un mondo nuovo, trasformando quello che c’è, bisogna rimboccarsi le maniche e saper condividere coraggio e fantasia, prima delle soluzioni e delle fattibilità tecnologiche. In fondo può essere considerato un piccolo contributo della comunità di Corviale all’Esposizione Universale di Milano.

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Perché gli urbanisti dovrebbero prestare attenzione alla vita notturna

La nightlife definisce il carattere di una città in modo duplice: da un lato rivitalizza aree periferiche e dall’altro svaluta quelle centrali. La progettazione dovrebbe essere più attenta a questo aspetto. Parola di Jakob Schmid.

Pub, discoteche, bar aperti fino a tardi. Le città sono piene di locali notturni che le rendono vive ed attrattive ma che creano al contempo grandi disagi agli abitanti, sopratutto in termini di inquinamento acustico. La cosiddetta ‘nightlife’ definisce il carattere di strade e quartieri in modo duplice: da un lato ha il pregio di dare lustro e nuova vita ad aree periferiche degradate o poco considerate, dall’altro ha il difetto di ‘svalutare’ zone residenziali o centrali che da silenziose e decorose si trasformano in aree caotiche e chiassose.

La vita notturna, e il suo dispiegamento, dovrebbe essere considerata di più dalla pianificazione urbanistica e i progettisti dovrebbero prestarvi grande attenzione. Cosa che invece non fanno. Il monito arriva da Jakob F. Schmid (foto), giovane pianificatore urbano tedesco, che, per colmare questo gap, ha avviato un progetto di ricerca, “City After Eight – Management of the Urban Night Economy”, finanziato dal governo tedesco. Con l’obiettivo di offrire uno strumento utile ai progettisti e sopratutto di sviluppare un dibattito intorno a un tema a suo avviso importante e ingiustamente trascurato.

Mappare la nightlife per analizzarla
Lo studio, incentrato sul territorio tedesco, è partito dall’analisi preliminare svolta su 12 grandi città tedesche, prima fra tutte Berlino che, in termini di ‘nightlife’ la fa da padrona, per poi soffermarsi su tre casi studio approfonditi: Monaco, Colonia e Manheim. I dodici centri urbani sono stati mappati, in modo da evidenziare chiaramente le aree pullulanti di ‘vita notturna’, per poi incrociare i risultati con dati economici, di real estate e progettazione. L’evidenza, secondo Schmid, è che la ‘nightlife’ crea economia, basti pensare che secondo alcuni dati del 2009, sulle strade, o meglio nei locali, di Berlino ogni fine settimana si riversano 10mila visitatori, attirati non dalle bellezze architettoniche ma dallo svago offerto. Anche Amburgo ha un distretto di intrattenimento piuttosto conosciuto o ormai consolidato, il St. Pauli, preso di mira dai turisti.

Per quanto riguarda la distribuzione dei locali, a parte Berlino dove la vita notturna è dispiegata in diverse aree della città, generalmente i locali si concentrano nel centro città, e in particolare nelle varie strade che si estendono nei paraggi di quello che viene considerato il punto centrale. E il dato rilevante è che i prezzi di affitto in queste aree scende notevolmente. Insomma, la night life crea economia, ma danneggia il real estate. Ma, volente o nolente, le attrazioni notturne sono importanti e danno rilievo alle città.

Il buon esempio di Londra
Chi se ne è reso conto per primo, secondo Schmid, è il Regno Unito che alla fine degli anni ’80 ha sviluppato una serie di strategie incentrate sull’economia notturna. Quando iniziò a verificarsi, in quegli anni, un fenomeno di suburbanizzazione, tale per cui i centri urbani, al termine della giornata lavorativa, si svuotavano completamente, gli urbanisti inglesi si sono resi conto di dover creare spazi, luoghi e centri di interesse che potessero attirare persone anche nelle ore serali. Londra è il risultato perfetto di questa consapevolezza.

La pianificazione urbana dovrebbe essere in grado di promuovere o limitare la vita notturna
La vita notturna, insomma, dovrebbe essere controllata. E le politiche di sviluppo urbano orientate a prevenirla o promuoverla dovrebbero essere portate avanti con una grande consapevolezza dettata dalla capacità di analisi di dati e informazioni ma anche dalla profonda conoscenza del contesto. Il che vuol dire anche consapevolezza dei bisogni dei residenti. Assolutizzando per paradosso, afferma Schmid, non si può pensare di far nascere dei locali notturni in aree interamente residenziali così come in zone abitate prevalentemente da una popolazione anziana.

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Ponte dei Congressi: ottima notizia ok Parlamento a proroga termini cantierizzazione

Con una seduta conclusasi all’alba di ieri, la Commissione Bilancio della Camera ha dato il via libera al Decreto “Milleproroghe”, che contiene le modifiche al Decreto Legge n° 133 del 12.09. 2014,“Sblocca Italia”, all’interno del quale viene recepita la richiesta di proroga di 4 mesi per la cantierizzazione del Ponte dei Congressi: lo stesso Municipio XI, all’unanimità non più di due settimane fa, si era pronunciato in questo senso e, grazie anche al lavoro svolto dal Partito Democratico in Parlamento la scadenza è posticipata da Agosto a Dicembre 2015 – Lo dichiara Emanuela Mino, Presidente del Consiglio del Municipio Roma XI.

D’altronde, un’opera così complessa e del valore di quasi 200 milioni (di cui 145 a carico del Governo e la restante parte sostenuta da Roma Capitale), richiede tempi di progettazione e cantierizzazione lunghi ma la cui attesa sarà ben ripagata dalla realizzazione di un nuovo ponte sul Tevere che collegherà l’EUR, la via del Mare e l’Ostiense, con l’autostrada Roma-Fiumicino andandosi ad integrare con l’esistente viadotto. Andrà quindi a formarsi un “anello” che renderà più scorrevole il traffico e consentirà di decongestionare il quartiere della Magliana: l’ok definitivo arriverà entro il 28 febbraio, data ultima entro la quale il decreto “Milleproroghe” dovrà essere convertito in Legge e da quel momento avremo la certezza che il maggior tempo concesso ci permetterà di non perdere i finanziamenti con tanta fatica, lo scorso Luglio, ottenuti.




L’importanza dei “contenuti” nei Piani Urbanistici Generali delle città di Puglia

Tutti i comuni devono aspirare ad essere una città-comunità, perché i caratteri dei “centri urbani” sono accentuati dal modo in cui si intendono i caratteri delle “periferie”.

È necessario e fondamentale, oggi più che mai, impiantare il tema delle proposte concrete e dei “contenuti” nei Piani Urbanistici Generali da ideare e attuare, nonché degli “strumenti” che creano la possibilità di dotarli di un’idea di città-comunità, cogliendo l’opportunità di alcuni aspetti operativi e assoggettandoli a criteri metodologici e funzionali.

Guardare alle periferie – I Piani Urbanistici Generali devono proporre, in modo evidente, una unitarietà di intenti delle città, ma coordinati nella loro natura di Piani, comprendendo anche le palesi imprecisioni che la scala del disegno impone, e farli in termini generali e quantitativi, nella giusta dimensione e localizzazione delle aree, servizi, spazi, infrastrutture, con una corretta distribuzione della “densità” abitativa. Contemporaneamente bisogna dare i “contenuti” a questa unitarietà, formulando innanzitutto il modo di intendere i centri urbani e le periferie che aprono alla campagna circostante: entrambi vanno considerati come categorie fondamentali della struttura urbana e fortemente correlati tra loro, perché i caratteri dei “centri urbani” sono accentuati dal modo in cui si intendono i caratteri delle “periferie”: non è un caso che queste risultano sempre voltare le spalle alla campagna circostante, guardando ai centri, senza essere “qualitativamente periferia”. Per questo è essenziale che i Piani Urbanistici Generali considerino importante i centri urbani altamente qualitativi e le periferie che a corona completano le città e il rapporto con il territorio agricolo circostante, sperimentando progettualmente una unitarietà urbana non solo sotto l’aspetto quantitativo, ma soprattutto in termini qualitativi.
Taranto

Per una città-comunità – Tutti i comuni devono aspirare ad essere una città-comunità, nonostante differenze significative sia funzionali che strutturali che si evincono con chiarezza vivendo le città; ma questa idea dell’equilibrio qualitativo deve essere visivamente percepibile e deve trasmettere la sensazione di equipotenzialità tra i centri e le periferie con tutti i suoi aspetti le differenze significative individuabili con chiarezza nella stessa storia urbana. Anche i modi costruttivi, i modi di vivere i luoghi urbani costituiscono, essi stessi, i valori della stratificazione storica degli edifici a cui va riconosciuta la dignità del periodo in cui sono nati e costruiti senza alterare i dettagli visivi e architettonici. Diversamente si altererebbe la storia urbana che, nel bene e nel male, ha costituito e costruito le città nel tempo, intuendone i valori, i caratteri architettonici, i caratteri e le risposte sociali a cui molti edifici hanno dato risposte, i modi in cui le città si sono ampliate.

Attraverso questi elementi strutturanti si può percepire una storia, una vera storia urbana, che va compresa, restaurata, completata degli elementi mancanti, dando dignità agli edifici, agli abitanti, alle aree urbane, senza alterarne i valori con sovrapposizioni formali che sottendono ad altri periodi storici o alludono a livelli sociali falsi. Va evitata l’alterazione visiva della storia urbana attraverso l’alterazione segnica dei dettagli architettonici non corrispondenti al tempo in cui vengono realizzati.

Tutto ciò va sintetizzato nelle scelte e nei “contenuti” che i Piani Urbanistici Generali devono esprimere ed è solo attraverso questa metodologia operativa che si possono realizzare fisicamente le città-comunità in relazione tra loro non solo per contingenze geografiche ma anche e soprattutto per contestualità culturali, antropologiche, artistiche, storiche e infrastrutturali, caratterizzando così i “contenuti” dei Piani Urbanistici Generali delle città-comunità di Puglia.

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Ponte dei congressi: il Parlamento proroghi i termini per la cantierizzazione

Il Municipio XI ha approvato oggi all’unanimità una mozione per chiedere al Parlamento che, in sede di conversione del decreto legge n.192 del 31.12.2014, possa essere prorogato il termine fissato per il 31 Agosto del 2015 per la cantierizzazione del “Ponte dei Congressi”: le procedure in corso, infatti, vista la complessività dell’opera richiedono tempi più lunghi e pertanto prorogare i termini è necessario per non perdere i 145 milioni di euro di finanziamento statale previsti dallo “Sblocca Italia” ed accordati nell’Agosto dello scorso anno. – Lo dichiarano i Consiglieri del Partito Democratico del Municipio XI, Rossella Coltorti, Fabio Fadda, Emanuela Mino, Ermanno Pascucci.

Il “Ponte dei Congressi”, è un’opera strategica per la città e per il quadrante sud-ovest della Capitale, la sua realizzazione permetterà infatti il potenziamento del collegamento viario tra l’Autostrada Roma- Fiumicino e l’Eur alleggerendo così i consistenti flussi di traffico che attualmente gravano sul Ponte della Magliana e su infrastrutture obsolete o inadeguate. Il nuovo ponte sul Tevere, disposto ortogonalmente al fiume e ubicato a valle dell’esistente Ponte della Magliana, sarà realizzato in aree libere e consentirà di mantenere inalterata la connessione diretta tra l’Autostrada Roma Fiumicino e la Via Colombo, aggiungendo anche il collegamento diretto con l’EUR per chi proviene dall’Autostrada e da via Isacco Newton.




Piano strade: Bene Pucci, nel Municipio XI si parte dal Trullo

Ieri il Sindaco Marino e il neo Assessore ai Lavori Pubblici Maurizio Pucci hanno presentato il piano di manutenzione stradale con l’obiettivo di risanare la grande viabilità, ascoltando i Municipi, investendo 6 milioni di euro ed intervenendo entro Marzo su 250mila mq con l’obiettivo di arrivare entro l’estate al a 750mila mq (15% del totale): una buona notizia anche per il nostro Municipio dove sarà Via del Trullo (dal civico 215 a Piazza Caterina Cicetti) la prima arteria interessata alla riqualificazione. – Lo dichiara Emanuela Mino, Presidente del Consiglio del Municipio XI.

Gli interventi partiranno dalla periferia, con asfalti che garantiranno una durata di anni, ed i cittadini potranno controllare su internet e con appositi countdown installati nelle aree di cantiere, tempi e modalità di realizzazione; si interverrà inoltre sul rifacimento degli attraversamenti pedonali davanti ad oltre 143 istituti scolastici utilizzando vernici con biocomponenti e microsfere di vetro che garantiscono maggiore durata e visibilità. Infine la realizzazione di un piano regolatore per i sampietrini, togliendoli dalle aree centrali di grande viabilità, dove sono pericolosi per l’incolumità di persone e cose, ricollocandoli in periferia in piazza ed aree pedonali realizzate ad hoc.

L’impegno della Giunta e il coinvolgimento dei territori, dimostrano ancora una volta come questa Amministrazione lavori nell’interesse della città, facendo scelte trasparenti e concertate con il territorio in quadro di intervento complessivo, facendo dimenticare, sempre di più, quella logica clientelare e disordinata che aveva mosso l’Amministrazione Alemanno, le cui conseguenze oggi andiamo pian piano a sanare.