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Periferie: “vi si tocca con mano crescita disuguaglianze”

“L’attenzione che la Camera dei deputati ha rivolto al mondo delle periferie è stato uno dei tratti distintivi di questa legislatura. Lo ha fatto la Commissione d’inchiesta, nella sua attività di studio, di riflessione e di ricerca sul campo. E l’ho fatto io stessa, come Presidente della Camera, visitando fin dall’inizio del mio mandato numerosi quartieri difficili delle nostre grandi città: da Scampia a Quarto Oggiaro, da Librino a Corviale, da Tor Bella Monaca allo Zen di Palermo e tanti altri quartieri. È stata una bella esperienza perché ho avuto la facoltà di incontrare direttamente tante persone”.

Ricordo a Corviale una festa che hanno organizzato i giovani del “calcio sociale”. Ma ricordo con altrettanta commozione l’accoglienza delle donne dello Zen che sono state con me per ore; anzi, sono stata io con loro, a casa loro per ore: all’inizio non è stato semplice, ma poi abbiamo stabilito un contatto. E in quelle ore raccontavano le loro giornate, i loro problemi, i loro figli, cosa voglia dire essere donna sola con figli in un quartiere complicato. Così come mi ricordo anche la giornata passata a Quarto Oggiaro, sempre a casa delle persone, per sentire come abbiano anche proposte concrete da sottoporre alle Istituzioni, non solo quelle locali, anche nazionali.

Ricordo ad esempio a Napoli, a Scampia, una riunione piena di persone: era stata organizzata dal Comitato delle Vele, ed era un incontro fatto lì in un sottoscala, con centinaia di persone nel momento in cui si stava decidendo di trasferire queste famiglie fuori dalle Vele. Stare lì con loro e ascoltare la loro contentezza, perché finalmente questo avveniva, per me è stato motivo di grande soddisfazione, mi stavano dando fiducia. E poi mi invitarono anche ad andare ai primi trasferimenti – perché in quel momento si era in procinto di farli – ad andare con loro nel momento in cui uscivano dalle Vele e andavano nelle nuove case: belle, dignitose, pulite, non umide, senza degrado.

Sono stati passaggi che ho trovato per me molto importanti per riuscire a mettere in atto un tentativo di riconciliazione tra le istituzioni e le persone.

Le ragioni di questa mia e nostra attenzione sono evidenti. Una parte consistente dei cittadini italiani vive e lavora in periferia. Chi vive e lavora in periferia normalmente è anche più giovane, quindi i nostri ragazzi e le nostre ragazze vivono in questi quartieri.

E poi è in queste periferie che si tocca con mano cosa voglia dire la crescita delle diseguaglianze: c’è il volto della diseguaglianza in queste periferie. Vuol dire meno lavoro per i giovani e per le donne; maggiore tasso di abbandono scolastico; maggiore carenza di servizi; condizioni di degrado e di forte disagio sociale.

L’Istat – saluto il Presidente Alleva che vedo qui, mi fa piacere che sia con noi – ci dice che nel 2016 il 30 % delle persone residenti in Italia è a rischio povertà o esclusione sociale; e la gran parte di queste persone vive nelle periferie. Non è esagerato dire che il Paese non ripartirà veramente se non si andrà a prosciugare questa vasta area di disagio sociale.

Però nel mio viaggio nelle periferie non ho visto solo degrado, solo disagio, solo insicurezza. Sarebbe non completo fermarci a questa lettura.

Ho visto tante persone – devo dire, tante donne – che al degrado non ci stanno, decidono di reagire, che si associano, che fanno comitati, che fanno laboratori, che fanno associazioni, che si mettono insieme per cercare di risolvere i problemi; fanno proposte concrete,  si rivolgono alle istituzioni sia locali che nazionali.

Sono figure che non accettano una condizione prestabilita: siccome nasci e cresci in periferia non hai scampo. No, c’è una forza che viene da questi quartieri che noi non troviamo in altri quartieri. Io non l’ho trovata la stessa forza e la stessa determinazione nei quartieri meno problematici, dove è più facile: ognuno pensa per sé, perché tanto c’è chi pensa al resto. Nei quartieri, invece, dove c’è il degrado, le persone hanno più tendenza a unire le forze, a mettersi insieme per trovare la soluzione. Allora bisogna ringraziarle, queste persone: io voglio rivolgermi a loro, voglio dire grazie a chi fa questo sforzo di reazione, che non aspetta dall’alto la soluzione; voglio dire grazie alle associazioni di questi quartieri, ai comitati, grazie perché non c’è la resa, non c’è la rassegnazione, non c’è lo sconforto, ma c’è la capacità di reagire.

Però queste persone noi non dobbiamo mica deluderle: perché, se al comitato che riesce a aggregare le persone e a perorare la causa della soluzione attraverso il contatto con le istituzioni, le istituzioni voltano le spalle, allora il problema diventa molto grave. Per questo io penso che di fronte a chi si rivolge alle istituzioni con una soluzione non bisogna mai e poi mai voltare le spalle.

Il Governo ha finanziato numerosi progetti di rigenerazione urbana, dando séguito al Programma straordinario per le periferie varato dal Parlamento con la legge di stabilità 2016. Diversi di questi progetti erano stati elaborati insieme ai cittadini. E questo anche è un aspetto importante. Ma queste misure non possono rimanere occasionali, né sperimentali. Devono diventare certe e permanenti, perché non basta intervenire una tantum per incidere veramente sulla qualità della vita di questi quartieri.

Allora la nostra presenza – quella mia e quella della Commissione – nei quartieri di periferia ha anche un valore politico che non può essere sottovalutato: perché in un tempo in cui c’è sfiducia verso le istituzioni, c’è distacco, non ci possiamo limitare a fare buone leggi – che già è tanto – ma dobbiamo uscire dal palazzo; dobbiamo stare fuori, stare con le persone, avere l’umiltà di ascoltarle e dare alle persone la possibilità di far parte del sistema decisionale.

A me ha fatto molto piacere che in questo viaggio io abbia anche potuto ricambiare le visite. Io sono andata a visitare questi quartieri, ma non c’è stata una volta in cui le associazioni, i cittadini e le cittadine di quei quartieri non siano stati poi invitati da me a venire qui, a Montecitorio. Perché Montecitorio non è solo il palazzo dei deputati e delle deputate, ma è la casa di tutti gli italiani e le italiane.

C’è un gruppo di cittadini di Tor Bella Monaca che non si perde una domenica di ‘Montecitorio a porte aperte’: ogni prima domenica del mese, quando noi apriamo ai cittadini e io faccio la guida turistica, loro sono sempre in prima fila, vengono continuamente perché c’è un evento culturale. Mi piace, è democratico che si vada nell’istituzione parlamentare e fruire di cultura: tutti devono avere accesso alla cultura, non può essere l’esclusiva solo di chi paga. Mi piace che sia gratis la cultura, per tutti i cittadini, e questo facciamo e abbiamo fatto in questi anni.

Le donne dello Zen sono venute qui, non erano mai andate a Roma, non avevano mai preso un aereo, non erano mai entrate in un’Istituzione. Anche questo è democratico: sono venute e sono state una giornata con noi, abbiamo fatto vedere loro il palazzo, abbiamo spiegato il sistema legislativo, le abbiamo invitate a pranzo. E sapete perché sono venute? Perché avevamo mantenuto la promessa, perché la mattina in cui eravamo andati lì con il Sindaco Orlando, loro ci avevano fatto delle richieste molto chiare: vogliamo il campetto da calcio per i nostri figli; vogliamo l’elettricità nella strada principale, dove non c’è più; i cassonetti devono essere rimessi nelle posizioni dove stavano prima che fossero portati via non si sa da chi. La sinergia con le istituzioni: il sindaco Orlando si impegna a farlo, e dopo un mese tutto questo viene fatto; le donne dello Zen cambiano opinione riguardo alle istituzioni, “allora si può fare”. E vengono a Montecitorio, con la convinzione che stanno ricambiando una visita che a loro stava particolarmente a cuore.

E così abbiamo fatto con tutti, lo abbiamo fatto con i ragazzi di Scampia, “la Scugnizzeria”: figli di persone che quasi tutte hanno problemi con la giustizia, magari un padre o una madre in prigione; ma non può essere che la colpa dei genitori ricada sui figli. Se i figli fanno attività sportiva, o teatro, allora si sentono attori, sì, attori anche del loro futuro, perché nel fare l’attore poi diventano capaci anche di riscattare una condizione. Qui a Montecitorio hanno fatto la prima rappresentazione teatrale: erano felici, erano ragazzi che si sentivano accettati, riscattati. E tantissimi altri sono gli esempi che vi potrei portare.

La periferia non è solo un luogo geografico, è una condizione sociale. Io nella mia precedente attività, quando mi è capitato di lavorare in tante parti del mondo, ho visto la periferia nei centri di tante città africane; a riprova che la periferia non è un luogo geografico, è una condizione. E dunque è su quella condizione che noi dobbiamo lavorare.

La periferia non chiede assistenza, no: la periferia chiede uguaglianza delle opportunità, chiede l’applicazione dell’articolo 3 della Costituzione. E chiede anche empowerment, coinvolgimento nelle decisioni: “noi ci siamo, siamo i primi esposti, vogliamo esserci, dare il nostro contributo, contare”. Questo vuole la periferia, non vuole assistenzialismo!

Penso – ha concluso Boldrini – che l’impegno della Camera vada nella direzione giusta e mi auguro che nella prossima legislatura non si perda questa attenzione, anzi spero che si rafforzi. Spero che Luciano e Rita da Tor Bella Monaca continuino a venire a Montecitorio ogni prima domenica del mese. E mi auguro anche che i ragazzi del “calcio sociale” – Giorgia, Massimo ed Alessio – possano continuare a contare sulla Camera per le attività che svolgono con i ragazzi di Corviale. Mi auguro tutto questo, ma dipenderà da noi e da voi. Cerchiamo di mantenere viva questa attenzione insieme”.

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Nasce coordinamento dei comitati. Gabrielli: «Anche le istituzioni devono saper fare rete»

È stato costituito ieri a Roma, nel corso di un convegno organizzato nella sala Aldo Moro alla Camera dei Deputati, il “coordinamento delle periferie”, e cioè la prima rete nazionale di associazioni ed enti di “animazione sociale” che fanno da collante e sostegno alle azioni (le più varie) di rilancio fisico e sociale dei quartieri degradati di sette grandi città: Roma, Napoli, Bari, Bologna, Milano, Torino e Palermo.

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Si tratta di realtà diverse. Comitati o associazioni (sempre con ruoli di “collante”, non per specifiche iniziative): Corviale Domani (Roma), promotore dell’iniziativa, Comitati dei quartieri Libertà e Nuova San Paolo a Bari, Comitato Le Vele di Scampia a Napoli, Laboratorio Zen insieme a Palermo. Soggetti a cavallo tra pubblico e privato, come le Case di quartiere a Torino. Soggetti pubblici ma con ruolo di “mediazione”, come l’Urban Center di Bologna. Soggetti privati come Avanzi a Milano, architetti urbanisti specializzati in urbanistica partecipata e attivi in vari progetti a Milano.

L’ambizione del coordinamento (che si chiama «La realtà si vede meglio dalle periferie», citando una recente frase di papa Francesco) è quella, oltre a fare rete dal basso, di portare stabilmente la voce delle associazioni di quartiere nei palazzi delle istituzioni.

L’iniziativa ha ricevuto il sostegno del capo della Polizia Franco Gabrielli, che è intervenuto al convegno con una video intervista: «La crisi ha colpito di più le periferie. Ma esistono potenzialità enormi, è fondamentale che ci sia partecipazione ed è importante il coordinamento che avete costituito oggi. Ma anche le istituzioni devono imparare a fare rete, mentre spesso questo non avviene. Le istituzioni devono sporcarsi le mani, ascoltare i territori, non spaventarsi se spesso il dialogo è un po’ urlato e teso; e il dialogo va preso sul serio, gli impegni vanno rispettati, e bisogna che le istituzioni si parlino per affrontare i problemi e sappiano fare rete nel cercare di risolverli». Un intervento, quello di Gabrielli, che senza dubbio mette a frutto anche la sua esperienza di prefetto di Roma e capo della Protezione civile.

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Periferie… Tutti al centro! Si riparte dai “margini”

Un convegno sulle periferieIn pieno centro a Roma. Un paradosso? No, soprattutto se il tema principale dell’incontro è la rigenerazione di luoghi che non possono – e non devono – esser considerati marginali e per questo abbandonati a loro stessi.

Le periferie di cui si è parlato nella giornata del 23 novembre non sono quelle considerate tali perché geograficamente lontane dal centro della città. Sono invece quelle comunemente percepite come non-luoghi. Periferie che sanno di identità smarrite e nelle quali “stare al margine” diventa una consapevolezza più che una sensazione.

Ed è proprio dai tentativi di contrasto di questo status quo delle cose che prende forma il convegno “La realtà si vede meglio dalla periferia”. Nell’affascinante cornice della Sala Aldo Moro di Palazzo Montecitorio non si dà importanza a parole belle ma vuote. Il tavolo dei relatori è costruito infatti in modo tale da offrire testimonianze, esperienze e progetti messi in atto nelle periferie di diverse città italiane.

Gli interventi

Da Corviale (col suo “Serpentone”) allo Zen, da Scampia al Nuovo San Paolo, gli interventi di educatori, architetti, assessori ed esperti si susseguono incessanti. Una giornata sembra non bastare per entrare nel vivo di un tema che non può esser più solamente osservato dalla superficie. Ma, di certo, diventa sempre più impossibile non notare quanto le periferie siano accomunate da un’unica, fondamentale caratteristica: l’esser ritrovo di creatività e (sotto)culture.

Le persone, gli abitanti della periferia stessa, non possono dunque diventare un elemento secondario nell’analisi di questi luoghi. Anzi, al contrario, ripartire da chi vive questi spazi, ricomporre un sentimento di integrazione e identità sono il primo passo per riappropriarsi realmente delle periferie. E, non a caso, l’accesso al Convegno avviene dall’ingresso principale di Montecitorio, per un confronto con le istituzioni finalizzato a rimettere le persone al centro. Così come, con nuovo vigore, si sta tentando di fare con molte periferie italiane.

Se l’architetto Giovanni Caudo cita De Andrè e la sua “direzione ostinata e contraria” per riaffermare proprio la necessità di riqualificare le periferie, il convegno entra però nel vivo col racconto di progetti concreti realizzati in particolari periferie del nostro stivale.

“Carceri speciali”, Libertà e Serpentone

Letizia Liberatore e Domenico De Renzo (rispettivamente dei Comitati di quartiere Libertà e Nuovo San Paolo) ci portano alla scoperta di una Bari popolare sulla quale continuare a lavorare. “Il quartiere Libertà è da sempre musica, colore, luogo d’espressione d’arte e cultura. Doveva essere uno spazio aperto ai giovani, uno spazio da vivere. Ma il risultato non è stato quello”, dice Letizia. “Per questo ci impegniamo, per rispondere al degrado portando cultura. Ogni giorno c’è un forte reazione da parte di cittadini determinati a cambiare le cose.”

Dal racconto della Nuova San Paolo, dove i cittadini che hanno investito non vedono dopo 17 anni ancora alcun risultato, si passa poi a quello di Scampia. La storia delle “Vele” viene raccontata dai rappresentanti del Comitato e da chi, le vele, le vive e ricorda quando erano ancora sette: “C’è un’umanità straordinaria. Gente che lotta e non si rassegna. Le Vele noi le chiamiamo carcere speciale perché abbiamo visto cose bruttissime e per 30 anni siamo stati etichettati da un mondo che vede solo la Scampia dei film, di Gomorra. Ma non siamo solo questo”.

Lavoro, passioni…

Le emozioni di fronte a racconti di quanto è stato fatto e quanto ancora ci sia da lavorare si fondono con interviste, dati tecnici e interventi-video, come quello del Capo della Polizia Franco Gabrielli, sulla (in)sicurezza di molte delle periferie chiamate in causa. Pino Galeota, CorvialeDomani (facente parte di Coordinamento 23 Novembre – organizzatore dell’evento insieme al Forum Terzo Settore Lazio e altre reti e associazioni attive sul territorio), spiega come in quartieri simili la battaglia si combatte sul campo del valore sociale. In questo senso la risposta di Gabrielli risuona ancora più forte: “in 13 mesi ha visitato 60 periferie. Quando abbiamo detto che a Corviale non viene nessuno, lui ha prontamente risposto Ci vengo io. E l’ha fatto sul serio”, conclude Galeota.

…E foto dalle periferie

L’intervento del Dott. Sandro Cruciani – Responsabile Direzione Centrale ISTAT – diventa invece fondamentale per combinare le esperienze maturate “sul campo” con dati, numeri e statistiche. Istantanee capaci di restituire importanti fotografie di Comunità e territori da coinvolgere nel processo di rigenerazione.

La mattinata si conclude con gli interventi di Giovanni Ginocchini, Urban Center Bologna, Erika Mattarella, che porta l’esperienza di Torino, Elena Donaggio la realtà di Milano e Mariangela Di Gangi, Laboratorio Zen Insieme, di Palermo.

Tante voci, competenze diverse eppure punti di vista estremamente interessanti. Utili a fornire una visione generale della questione e raccontare piani di azione realizzabili da chi conosce bene il tema di cui parla. Tutti elementi che denotano la particolare cura nella selezione dei relatori e delle realtà presentate.

In viaggio per l’Italia

A Bologna l’Urban Center crea spazi di “immaginazione civica” e innova con “patti di collaborazione” che favoriscano la partecipazione dei cittadini attraverso un “bilancio partecipativo”: per la prima volta sono i cittadini a votare i progetti presentati (quasi 30, segno della voglia di fare per donare nuova identità alla propria periferia). Voto aperto a ragazzi dai 16 anni, agli studenti non residenti e agli stranieri. Insomma, a tutte quelle persone che vivono la città ma non hanno in altri casi il diritto di dire la loro.

A Torino è la realtà delle case di quartiere a rivoluzionare il concetto di periferia passiva: aperte a tutte e sede esclusiva di nessuno, questi luoghi diventano importanti contenitori di progettualità, come a Milano è il progetto UIA a dare vita a una mappatura e scoperta di buone pratiche provenienti “dal basso”.

In pochi minuti Mariangela Di Gangi riesce invece a colpire l’intera sala con un incisivo racconto delle attività di Laboratorio Zen Insieme sul territorio palermitano. Poche e chiarissime parole che lasciano ben impresso un concetto: “l’obiettivo degli educatori, qui, è combattere non la mafia, ma la mentalità mafiosa”.

Sociale, istituzioni e nuove narrazioni

“Non siamo tutti Buzzi, non siamo tutti Carminati”, inizia con questo monito di Salvatore Costantino (Presidente impresa sociale Folias – Legacoop) il pomeriggio, che prosegue poi all’insegna di tavole rotonde istituzionali. “Come rigenerare la periferia?”, chiede Francesca Danese, Portavoce Forum Terzo Settore Lazio. “Con la conoscenza e, insieme, la valorizzazione di un mondo come il Terzo Settore. Non si tratta di portare il Colosseo in periferia, piuttosto il contrario. Va sottolineato che rispetto ad altre città europee da noi non ci sono banlieue, però dobbiamo prendere atto della preoccupante situazione attuale: la povertà è fortemente aumentata anche nei paesi che hanno voluto creare l’Europa. E allora, se ci siamo fatti sfuggire un’Europa sociale, forse dobbiamo ripartire proprio dalle periferie per ritrovare alcuni valori persi”.

Mentre gli interventi continuano, almeno due consapevolezze si fanno strada, decise: la prima che un dialogo e la creazione di una rete tra realtà territoriali di Città metropolitane diverse è possibile. La seconda è che la ricostruzione passa anche, e soprattutto, dalle amministrazioni. E sta proprio alle istituzioni creare nuove narrazioni.

Materiale ce n’è, voglia di fare e capacità di riuscire non mancano, quindi… Non resta che ripartire. Dalle periferie, ovviamente.

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Allo Zen c’è da pagare un debito verso il territorio

In città pronti 18 milioni di euro. Per il capoluogo siciliano era presente l’associazione Zen Insieme. «È uno strumento che migliora la qualità e il senso di appartenenza alla comunità».

«Le istituzioni allo Zen devono pagare lo scotto di essere mancate per tanto tempo e hanno un debito nei confronti di quel territorio. Questo piano potrà essere una sorta di risarcimento per questo assenza». Mariangela Di Gangi, presidente dell’associazione Zen Insieme, racconta così l’incontro che si è tenuto ieri a Montecitorio, durante il quale è nato il coordinamento tra le realtà sociali delle città in cui è stato approvato il Piano per le Periferie. A Palermo questo piano porterà 18 milioni di euro tra fondi comunali, fondi del Patto per Palermo e anche fondi privati. Si tratta di cifre che in ogni caso sono presenti sulla carta ma non sono state ancora trasferite dai Comuni di riferimento. Ecco perché le associazioni che lavorano nelle città dove il Piano è stato approvato hanno promosso un incontro-convegno a Roma dal titolo La realtà si vede meglio dalla periferia, sul tema della rigenerazione delle periferie.

Le sette organizzazioni di altrettante città che hanno visto approvato il Piano sono: Corviale Domani (Roma), Urban Center (Bologna), Avanzi (Milano), Comitato Le Vele Scampia (Napoli), Laboratorio Zen Insieme (Palermo), Comitati Quartiere Libertà e Nuovo San Paolo (Bari), Progetto CO-CITY in Urban innovations Actions (Torino). Insieme hanno lanciato il Coordinamento Periferie che servirà per monitorare la spesa di questi fondi e per permettere alle associazioni di scambiare esperienze e metodologie. A Palermo la riqualificazione riguarderà la costa Nord, quindi in particolare lo Zen ma anche Marinella e Sferracavallo. «Questo coordinamento serve come interfaccia con le istituzioni – spiega Mariangela Di Gangi – per permetterci di lavorare meglio, affiancandoci e rafforzandoci rispetto alla realizzazione dei piani».

In questo primo incontro si è provato a delineare le linee guida operative per riqualificare e rigenerare i luoghi dove vivono moltissimi cittadini, spesso in condizioni di svantaggio in termini di servizi pubblici. «Nel mio intervento – continua Di Gangi – ho cercato di spiegare il mio punto di vista da operatrice nel quartiere, non scendendo nel merito del progetto in se ma raccontando l’importanza del processo, e non del progetto, che prova con fatica a corresponsabilizzare cittadini e istituzioni. La rigenerazione urbana, poi, per me è uno strumento che migliora la qualità della senso di appartenenza alla comunità, che può provare a accorciare la distanza tra cittadini e istituzioni per creare reale coesione sociale».

Tra i tanti relatori e ospiti presenti: il ministro per la Coesione Territoriale Claudio De Vincenti, Pino Galeota di Corviale Domani (Roma) e Giovanni Ginocchini di Urban Center (Bologna), Claudio Giangiacomo, avvocato del Cild – Centro di Iniziativa per la Legalità Democratica, il capo della Polizia di Stato Franco Gabrielli, il presidente della Commissione Affari Costituzionali della Camera Andrea Mazziotti Di Celso, il vice Avvocato dello Stato Marco Corsini, il direttore generale Fondazioni Casse di Risparmio Franco Righetti, il presidente della Commissione parlamentare Periferie della Camera Andrea Causin,  la segretaria nazionale dell’ANCI Veronica Nicotra.

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Il tema delle periferie visto da New York

La Grande Mela vara un ambizioso piano per distribuire in maniera più organica gli investimenti nel settore culturale, che andranno a coprire le aree “periferiche”. Un’iniziativa fortemente voluta dal sindaco de Blasio.

Sin dal XIX Secolo, la municipalità di New York finanzia la cultura, e lo fa con un volume d’investimenti di gran lunga superiore a tutte le altre città americane, e ai singoli Stati federali. Addirittura, il fondo nazionale per le arti, che dipende dal Governo, ha una dotazione inferiore rispetto agli stanziamenti della Grande Mela. Il 2017 rappresenta un punto di svolta: con il nuovo piano lanciato dalla città, si intende destinare risorse a quelle aree cittadine che ne hanno sin qui beneficiato di meno, le periferie. Tema che peraltro rappresenta una delle scommesse del presente anche in Italia, dove il Mibact ha stanziato 100.000 euro per la seconda edizione del concorso di idee per la riqualificazione di dieci aree urbane periferiche in tutto il territorio nazionale rivolto ad architetti under 35.

IL NUOVO PIANO CULTURALE

Dopo un lungo studio del territorio, un’apposita commissione del Dipartimento Affari Culturali ha pubblicato il rapporto CREATENYC: A Cultural Plan for All New Yorkers, che in 180 pagine mira a riorientare la vita culturale della città verso le zone sin qui trascurate rispetto ad altre. Tuttavia, ha spiegato Tom Finkelpearl, presidente della commissione “in città non ci sono deserti culturali, ci sono musei, gallerie, e spazi di vario genere in ogni quartiere. Il problema è che non tutti ricevono adeguato sostegno finanziario, in particolare non sono ben distribuiti i finanziamenti per i singoli artisti”. Il nuovo piano intende quindi parificare il più possibile la disponibilità di risorse nelle varie zone. Il primo passo è quello di aumentare immediatamente il sostegno a quelle istituzioni che fanno parte del Cultural Institutions Group, e praticano una politica dei prezzi dei biglietti molto bassa, o addirittura a ingresso gratuito. Ne fanno parte, fra gli altri, il MET, il Museo di Storia Naturale, ma anche la Wave Hill del Bronx, il Jamaica Center for Arts and Learning, e il Museo del Barrio. Così il sindaco de Blasio ha espresso la sua determinazione a portare avanti il progetto: “Questa è una città di ricchezza culturale ineguagliabile che si esprime sui marciapiedi, nei negozi, nei parchi, come nei musei e nei teatri. Se vogliamo mantenere questo clima creativo, dobbiamo usare tutti gli strumenti possibili per garantire a tutti i cittadini pari opportunità di accesso alle opportunità culturali. CreateNYC è lo strumento giusto per farlo“.

DISABILI, AFROAMERICANI, AMBIENTE

Il nuovo piano prevede anche una serie di interventi a sfondo sociale, come ulteriori finanziamenti a favore di artisti con disabilità, e il varo di un programma di formazione professionale dedicato agli afroamericani, volto a favorire la loro presenza in posizioni chiave all’interno delle istituzioni culturali in genere, considerando la bassa percentuale di persone di colore con incarichi dirigenziali. Sono allo studio anche misure per incentivare l’impatto ambientale dell’attività culturale, con incentivi per pratiche di gestione che limitino la produzione di anidride carbonica (ad esempio utilizzando fonti alternative per l’illuminazione degli ambienti). Jimmy Van Bramer, fra i promotori del piano, ha dichiarato come questo sia stato concepito per “andare incontro a tutti coloro che, per qualsiasi ragione, hanno ritenuto che quanto sin qui realizzato non fosse per loro, o che hanno esitazioni nell’accedere a fondi, enti, eccetera. Abbiamo l’obbligo di abbattere quelle barriere e scoprire dove sono le lacune e le iniquità. Stiamo facendo molto. Siamo la capitale culturale del mondo“.

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Non c’è più distanza sociale tra centro e periferie

Rapporto Istat, Roma sempre più frammentata socialmente.
A Roma “emerge una decisa frammentazione sociale. Il centro storico mostra una morfologia compatta con una chiara prevalenza di aree residenziali a profilo medio alto, che rappresentano a livello spaziale il 38,9% della popolazione, intramezzate da alcune aree con prevalente popolazione anziana”. È quello che si legge a proposito della distribuzione sociale sul territorio urbano della popolazione capitolina in un approfondimento (dedicato anche a Milano e Napoli) del rapporto 2017 dell’Istat, presentato questa mattina a palazzo Montecitorio.”Accanto a questa tipologia sociale coincidente a grandi linee con i municipi centrali – prosegue l’approfondimento – si riscontra una base insediativa caratterizzata da aree del ceto medio. In questo mosaico composito si intrecciano aree popolari a rischio di degrado, spazialmente parlando, l’8,1% della popolazione, in cui convivono differenti tipologie di disagio sociale ed economico. Queste aree accomunano la popolazione italiana e quella straniera: occupazione di bassa qualificazione, grado di istruzione medio-basso, nuclei familiari con numeri relativamente alti di componenti”. Da registrare, sempre secondo il Rapporto “una perdita progressiva dei confini tra centro e periferia. Un processo spaziale derivante dal quadro evolutivo della struttura sociale urbana e perturbana in cui agli insediamenti preesistenti si sommano nuove tipologie di abitanti”.

Il secondo elemento comune tra le tre città è: “L’assenza di periferie uniformi e di segregazione residenziale dei gruppi più disagiati. Non emerge cioè un modello insediativo caratterizzato da grandi aree distinte dalla presenza esclusiva di specifici gruppi sociali”. Secondo l’Istat: “Questa porosità tra aree e gruppi diversi rappresenta un elemento di forza nella prospettiva dell’integrazione sociale, ma anche una possibile fonte di conflitti”. La terza caratteristica che accomuna Roma, Milano e Napoli è: “La presenza di aree compatte caratterizzate da una decisa presenza di profili medio-alti”.

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Rapporto istat 2017




Periferie: il ‘Produci, consuma, crepa’ che nessuna campagna elettorale riscatterà

L’asfalto brucia sulle ginocchia dei bambini, il campetto da pallone con le porte senza reti, l’erba alta dentro cui nascondere l’immaginazione. La domenica un deserto, l’estate calda, i cui colori esplodono nella biancheria e nelle magliette appese ai palazzi. Grandi festoni di un compleanno mai festeggiato. L’idea del mare, dentro una conca di plastica verde. Alti muri, invalicabili, scale lunghe e articolate. Un gruppo di ragazzini gioca a picchiarsi.

Si picchiano per davvero, ma fanno finta di divertirsi. Ci si arrampica su un palo, una ringhiera per le capriole. E bar. Decine di bar e baretti, aggregazione a pagamento, noia e passatempo, le ore che scorrono senza un senso, cumuli di sigarette bruciate come metafora di ciò che sei. Slot machine, blister di psicofarmaci, buste di plastica, bottigliette; qualcuno all’angolo aspetta, piede e schiena al muro. Scuole sovraffollate, maestre in difficoltà, le mense e i suoi panini come soluzione all’inadeguatezza del sistema.

Diseguaglianze. Prepotenze. Porte chiuse dalla paura. Persiane rotte e porte buttate giù con un calcio, così come comanda l’istinto, perché una casa popolare del Comune non può essere lasciata lì a marcire. Porte sigillate con il cemento, nel degrado dell’abbandono. Spaccio. “Oggi il fumo non c’è, ma ho l’eroina”. Stagnola o siringa? La cocaina è venduta già pronta da basare, bottigliette di plastica con una cannuccia improvvisata, l’acqua a un terzo, e la stagnola bucherellata. Un foro dietro, per sfiatare, dello stesso diametro di una sigaretta dai mille usi insospettabili.

Brucia il tempo, bruciano le emozioni, la realtà si siede su un gradino e sembra di poterla schiacciare con qualche tiro. La testa rimbomba. Le orecchie fischiano, la musica non arriva mai fino a lì. Chiudi gli occhi. Il mondo è tuo e lo accartocci tra le dita. Un bel respiro. Tutto passa. Il risveglio che diventa inaccettabile. Il mercato due volte a settimana, pantofole di spugna, mestoli e scolapasta, plastica trasparente senza riflesso; cataste di maglie sgualcite, l’umido, il soppresso, mani che toccano e frugano, lanciano, contrattano. Non è ciò che voglio, ma è ciò che è alla mia portata. Non ho ambizioni, ma fantasie. Non ho bisogno di sognare, ma di soddisfare dei bisogni.

Un balcone al nono piano di un palazzone scrostato. C’è una bambina, guarda giù, la faccia piantata tra le sbarre della ringhiera verde. Gli occhi ci entrano entrambi. La bocca chiusa, tra le guance spinte di lato, sembra sorridere ma è solo un effetto, e pronuncia dentro di sé tutto ciò che ascolta e vede, senza elaborarlo mai. I soldi che mancano, i litigi incomprensibili degli adulti, la battuta sul suo sedere acerbo di qualche giorno prima, il suo seno che crescerà come quello di sua madre. “Presa!“, è solo un gioco, nascondino tra le macchine, il topo tira su la testa dal buco e si rintana. Presa. Le mani stringono il ferro freddo di quella ringhiera, sul viso i segni per non esser riuscita a infilare tutta la testa. Così, per guardare un po’ più in là, capire cosa c’è dietro, dentro, più avanti. Perché.

Le periferie. Queste entità astratte di cui tutti parlano riempiendosi la bocca e l’ego, fulcro fittizio e strumentale di campagne elettorali. Ora, chiunque riesca a restituire un motivo a quella bambina, per fare tutto ciò che si deve, per fare tutto ciò che è giusto, per fare tutto ciò che è bene, e normale. Chiunque abbia il coraggio di parlarci, e chiederle cosa le manca davvero, allora sarà credibile.

“Tutto il resto è noia”, come cantava Franco Califano. È l’inutilità della parola contro la potenza del contatto, dell’esserci, del vivere l’inadeguatezza e il silenzio sulla propria pelle. Il tempo infinito che non sa rivelare lo scorcio del cambiamento. “Produci, consuma, crepa. Sbattiti, fatti, crepa”. Chiunque abbia la capacità di ribaltare questo concetto nella testa di quella bambina, dandole input, strumenti di riscatto, e segnali concreti di speranza, non dovrà fare nient’altro. Ci penserà lei, e questo è ciò che sarebbe davvero necessario.

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Roma, la città raccontata dalla web arts resistances

Tre cortometraggi narrano una Capitale resistente, inclusiva, creativa, dall’esperienza del Trullo, alla creatività che trova ancora difficoltà ad esprimersi delle street artist donne all’esperimento del Maam
Tre cortometraggi per raccontare una Roma insolita, dove l’arte diventa strumento di resistenza e di rinascita urbana: dal Trullo rianimato da poesia e colori di autori anonimi e conosciuti, alla Pineta Sacchetti dove rivivono le storie di un quartiere raccontate sui muri e sulle serrande, alla sfida delle ragazze della street art, che anche all’ombra del Colosseo si fanno strada in un mondo ancora prevalentemente maschile, al MAAM, Museo dell’Altro e dell’Altrove di Metropoliz, unico museo abitato del mondo, dove una variegata comunità multiculturale e autogestita sta trasformando un ex salumificio occupato sulla Prenestina in un presidio di cultura e diritti.

Il laboratorio. I cortometraggi sono stati realizzati da un gruppo di ragazzi e ragazze francesi che hanno preso parte a un laboratorio di giornalismo partecipativo condotto dall’associazione marsigliese Tabasco Vidéo in collaborazione con il web magazine Babelmed nell’ambito del progetto Web Arts Resistances (www.webartsresistances.net), piattaforma di documentazione e reportage sulle esperienze di cittadinanza che, a Nord e Sud del Mediterraneo, usano pratiche artistiche per coinvolgere e farsi sentire.

Vita di strada. I film sono: Vita di strada e che è girato tra il quartiere della Pineta Sacchetti e la borgata del Trullo: racconta la rinascita di questi due quartieri attraverso l’impegno di chi ci vive e la partecipazione degli artisti, tra poesia, street art e danza hip hop, dai Poeti anonimi der Trullo ai Pittori anonimi del Trullo all’associazione Pinacci Nostri.

Maam Musei fuorilegge. Maam Musei fuorilegge racconta la storia dell’ex fabbrica che viene occupata da un gruppo di famiglie – italiane, sudamericane, rom, di diversi paesi dell’Europa dell’Est e dell’Africa – e coinvolto in un esperimento artistico per riflettere sulla privazione dei diritti di chi vive ai margini o è straniero. Inizia un percorso che porta alla nascita di un vero museo, che si arricchisce giorno per giorno di opere e interventi artistici, proteggendo così chi ci vive dagli sgomberi.

[P]ose ta bombe. Il documentario fa parte di un progetto audiovisivo realizzato da Elodie Sylvain e Caroline Ricco che esplora il fare e lo stare nello spazio pubblico delle ragazze e donne che hanno scelto la street art come campo di espressione. Dopo una prima puntata a Casablanca, la seconda tappa del loro viaggio ha toccato Roma.

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L’intorno (le periferie)

Le periferie salveranno il mondo. Quelle delle grandi citta’, le nazioni minuscule o non influenti, le popolazioni emarginate, costrette ad abbandonare la loro terra, per motivi di interessi altrui, guerre, carestie. Tutto quello che accade ai margini, nelle parti liminali delle curve delle distribuzioni, e’ li’ che il mondo cambia, che si rinnova. Abbandonate l’idea che siano le medie a creare le eccellenze e le novita’. Il consenso, la maggioranza silenziosa, servono a dare lavoro a politici e ministri, ma non cambiano il pianeta. Come non cambiano l’Europa. Le esagerazioni, gli asintoti, ci hanno imposto, per anni, ormai, a riconsiderare le scelte future. Il problema e’ quando qualcuno pensa che si possa tornare indietro o che non ci sia spazio per posizioni non ideologiche o di interesse, ma puramente politiche, sociali. Umane.

In questi anni del dopo Lehman, le periferie hanno continuato a trascinare i giorni, uno dopo l’altro, i giorni senza lavoro, senza opportunita’, senza aiuto dal ‘mondo dei medi’. Le periferie dilaniate da guerre fratricide, in Siria, Libia, oggi in Venezuela, forse Macedonia. Le periferie che, una mattina di cinque anni fa, a Londra, sono scese per strada e hanno provato una rivolta dei ciompi, le periferie che si ammassano, che annaspano nelle acque gelide dello stretto di Sicilia, le periferie che spingono, i cui figli vanno in scuole dove si parlano tante lingue, ma tutti comunicano assieme in inglese od italiano. O francese. Le periferie di Parigi, di Londra, di Roma, Los Angeles, Tunisi. Queste folle liminali che cambiano le aspirazioni di una nazione, o che ridisegnano, nei loro riferimenti alla cultura pop della ‘nazione internauta’, quella che ormai discute e si confronta oltre i nostri confini geopolitici. La cultura delle generazioni incipienti (smettiamola di chiamarle giovani) e’ sempre stata un drone. Oggi piu’ che mai.

I giovani, quelli che in Italia non hanno votato Si al referendum (manco fosse una colpa), quelli che incroci, che lavorano come camerieri, i giovani che ti mandano il CV, dove ti raccontano ogni piccola esperienza di lavoro in termini complicati, ma dove, in controluce, leggi semplicemente che hanno voglia di fare, di imparare. Un ragazzo serbo me lo ha scritto, nella lettera di presentazione: I want to learn. I want to grow. Voglio imparare, voglio crescere, voglio aumentare la capacita’ di vedere e capire il mondo, di usarlo, di piegare le correnti, i flussi finanziari e non, per costruire altro. Per creare spazi nuovi. Le periferie che ci guardano, le citta’ mediterranee con tetti e case accalcate una sull’altra, l’est di Londra, o tutti i villaggi e paesi del pianeta dove chi ci abita magari conosce tutti, ma sa, e’ consapevole che quello che rende giustizia al proprio destino e’ il muoversi, accettare la provocazione delle cose.

Oggi, quel mondo delle periferie sta creando una sua etica particolare. Le periferie abbandonate dai massimalismi della politica, dagli investimenti e dalle attenzioni, i giovani in fuga per la vita, verso il centro nevralgico del pianeta, stanno reinventandosi la morale, in un mondo senza divinita’ se non un senso di sacro per valori propri, l’amicizia, la fede nel futuro. Nasce da qualche parte l’impronta del nuovo. In una mensa della croce rossa in Germania, dove ho visto un signore siriano parlare animatamente con uno del Sudan. Signori, non profughi, persone, non immigrati. Muovendo le mani, spostando parole in tre lingue diverse, reinventavano il mondo.

Questa visione, di cambiamento, di impellente necessita; di emergere, di fare le cose attorno comode, magari non eccelse, ma personalmente utili, il tanto dal poco, se non dal nulla. Il mondo in un’ottica punk, anarcoide, ma dove rinasce il rispetto, dove si nascondono immagini di mondi futuri dove torna a trionfare l’umano. Come nella musica del collettivo Rudimental, a est dell’Hipsterborough di Hoxton, come nelle declamazioni in salsa glitch-hop di Kate Tempest, la Patti Smith della Generazione XYZ, come nei video che raccontano l’altro lato dell’immigrazione francese dei The Blaze. Guardatelo il video di Territory, perfetto nella sua storia di un ragazzo nordafricano che torna a casa in nave, la famiglia che lo attende, il suo ballo sfrenato sui tetti del pianeta, quel pianeta che cambia ogni giorno. Esempi del magma che si agita, da sempre, negli intorni della media.

‘There is no place like my home, since I was born’, cantano i The Blaze.

E, per chi viene dalle periferie, la casa e’ il mondo, perche’, se si vive lungo i bordi, tutto il dentro, tutto quello che si trova al suo intorno e’ luogo familiare. Tutte queste persone sono in cerca di una voce, di eroi, di modelli da seguire, di idee forti e pesanti a cui affidarsi. O, alla fine, ce la faranno da soli, come il ragazzo mutilato che torna a usare lo skateboard. L’apparente emarginazione, una recisione del corpo sconosciuto della societa’, nonostante tutto, continua a lottare per affermare la sua esistenza. La periferia. Culla del dissenso, dell’abbinamento inusuale e della liberta’ personale.

Soundtrack

The Blaze – Territory

Rudimental – Waiting all night

Kate Tempest – The Beigeness

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I ragazzi dimenticati nelle periferie d’Italia

Dallo Zen di Palermo a Quarto Oggiaro, discariche di questioni sociali irrisolte. Viaggio alla fine dello Stato, dove le istituzioni sono assenti. A cominciare dalla scuola alle porte di Roma, dove regna il degrado e si può morire in una sparatoria
I ragazzi dimenticati nelle periferie d’Italia
Il piccolo Totò, se fosse il sindaco, renderebbe il suo quartiere irriconoscibile. «Vorrei che non ci fossero più omicidi, che i ragazzi non spacciassero e realizzerei subito una piazzetta con il divieto di buttarci la spazzatura». Totò, 12 anni, è nato e vive allo Zen 2 di Palermo. Quartiere difficile, come lo sono, del resto, le altre periferie italiane. Difficili, spesso brutali, soprattutto per chi è minore. Esclusione, marginalità, povertà, non solo economica ma pure educativa. Assenza costante delle istituzioni.

«Qui la politica è venuta sempre e solo a chiedere i voti nelle campagne elettorali, promettendo grandi rivoluzioni, per poi scomparire», ci racconta indignata una mamma dello Zen, che ogni pomeriggio manda suo figlio nell’unico centro di aggregazione presente in questo agglomerato urbano di palazzi chiamati padiglioni, realizzato durante l’era di don Vito Ciancimino e Salvo Lima, all’epoca del famigerato “Sacco di Palermo”.
Centro di aggregazione che esiste grazie all’impegno dell’associazione Zen Insieme e Save the Children, che da qualche anno svolge un ruolo fondamentale nelle periferie del nostro Paese. Dove la latitanza pressoché totale delle istituzioni ha lasciato che questi luoghi diventassero discariche di questioni sociali irrisolte.
Dallo Zen 2 a Quarto Oggiaro, periferia milanese. Da San Luca e Platì, in Calabria, roccaforti della mafia più potente al mondo, a Ponte di Nona, sobborgo della Capitale deturpato da spaccio e degrado. L’Espresso è andato nei luoghi dimenticati dallo Stato, dove monta la rabbia sociale, a parlare con chi l’emarginazione la vive quotidianamente sulla propria pelle. E che ha trovato nelle associazioni del territorio, supportate da Save the Children, l’unico appiglio di normalità in un contesto dove anche solo un campetto da calcio è una grande conquista.

Totò e i libri

A casa di Totò, tolti i testi scolastici, non ci sono libri. Se fosse esistita una biblioteca pubblica ne avrebbe già letti parecchi. Così in mancanza di una pubblica, è nata quella al primo piano del punto luce di Save the Children dello Zen 2. Una giovane bibliotecaria da settimane sta archiviando i titoli e alcuni ragazzini coetanei di Totò la aiutano nell’impresa. «A fine mese arriveranno altri mille libri», ci spiega seduta senza staccare gli occhi dal grande registro in cui elenca i nuovi testi appena sistemati. È in questa grande stanza dalle pareti bianche e rosse che Totò sconfigge la timidezza e inizia a leggerci il suo programma elettorale, scritto durante il laboratorio “Se io fossi sindaco”. «Farei in modo che le persone si vogliano bene. Basta con la violenza che ha rovinato tante famiglie. Un grande parco giochi, l’ospedale, un campetto. Basta con lo spaccio».

Nelle richieste del piccolo Totò c’è il grido d’aiuto di un intero quartiere. Tra chi prova a dare speranza a questi giovani c’è il preside dell’istituto comprensivo Leonardo Sciascia. Giuseppe Granozzi dirige una scuola di frontiera. La dispersione scolastica è alta, alcuni bambini, mentre parliamo nel cortile, si aggirano fuori dai cancelli con una palla in mano. Sulla destra, collegato alla scuola, c’è un grande edificio di cemento, è la palestra. Finestre rotte, all’interno macerie ovunque, ferro arrugginito. Vandalizzata da 14 anni.
Intere generazioni di studenti non l’hanno mai potuta utilizzare. Un vero spreco, qui si potrebbero fare anche molte attività extrascolastiche. Per fortuna, ci dice Granozzi, a breve, finalmente, dovrebbero ristrutturarla. «Se è vero come sostengono che lo Zen è il serbatoio di manovalanza di Cosa nostra, allora forse sarebbe il caso di investire molte più risorse in queste scuole. È nelle periferie che si vince la sfida educativa, realizzando non solo scuole che funzionano, ma anche belle, accoglienti», riflette il preside.
La bellezza contro il degrado. Ricetta basica, economica, ma a Roma, nei palazzi dove si fanno leggi e si stabiliscono finanziamenti, hanno un’altra idea della “buona scuola” necessaria.

All’istituto Sciascia fanno il tempo pieno, nonostante manchi la mensa. I ragazzi si arrangiano con un panino. «Non me la sento di lasciare andare a casa i ragazzi, dove passerebbero le loro giornate? Non c’è un teatro, non ci sono piscine, né centri sociali, né un centro di aggregazione pubblico», si congeda con un sorriso amaro Granozzi. Storie reali, che confermano dati e statistiche raccolte dall’organizzazione umanitaria Save the Children: La Sicilia è la regione con la più alta percentuale italiana di alunni senza mensa a scuola (8 su 10), ha il 24 per cento di ragazzi che abbandonano precocemente gli studi (la media nazionale è del 14,7 per cento), meno di 1 bambino su 10 può andare all’asilo nido, il tempo pieno è assente in 9 classi primarie su 10 e più di 4 giovani su 10 non utilizzano internet.

Gli angeli dell’Aspromonte

Per lungo tempo sono stati i paesi dell’anonima sequestri. Poi sono diventati i feudi di una ’ndrangheta leader nel narcotraffico. San Luca e Platì, paesi d’Aspromonte. Raccontati meravigliosamente da Corrado Alvaro, che a San Luca era nato. Arriviamo qui seguendo la blacklist di dati e numeri fornita da Save the Children: il 38 per cento dei minori calabresi è in povertà relativa. In Calabria i servizi garantiti per l’infanzia coprono solo l’1 per cento dei bambini. E 3 classi su 4 delle scuole elementari e medie non hanno il tempo pieno.
Quasi 1 ragazzo su 5, inoltre, abbandona gli studi prima del tempo e il 78 per cento dei bambini e ragazzi non partecipano ad attività culturali e ricreative.
La Locride è una delle zone studiate dall’Ong. E dove spesso la ’ndrangheta è l’unica vera alternativa. A San Luca, per esempio, non è facile la vita di una sedicenne. Per una ragazza è consigliabile il matrimonio non oltre i vent’anni. Matrimoni combinati. Accade ancora, come ci conferma anche Carmela Rita Serafino, la preside della scuola elementare e media di San Luca. «È un dogma, persino le madri più giovani, invece di desiderare una vita diversa per le proprie figlie preferiscono che seguano le loro orme».
Le periferie italiane: simbolo di uno Stato che non c’è
Miriam, invece, ha scelto la strada più bella e difficile. A sedici anni vuole essere libera. Ha già scritto due libri. Il primo si chiama “Angels, la vita segreta di un angelo nascosto”. Stampato da una piccola casa editrice, il genere è fantasy. Ambientato in una Londra piena di fascino e di mistero. Miriam frequenta il punto luce aperto qualche settimana fa da Save the Children a San Luca, in collaborazione l’associazione Civitas solis. Una villetta, all’interno completamente ristrutturata e con ampi spazi dove i ragazzi si dividono tra studio e laboratori. Una novità assoluta per San Luca. Che sembra aver suscitato la curiosità dei genitori, anche quelli più riservati e più diffidenti. Anche qui, prima dell’apertura di questo luogo a parte la piazza del paese e qualche bar sala giochi, i bambini non avevano un posto dove fare attività ricreative dopo la scuola. Perciò o restavano a casa oppure vivevano la strada, con tutti i rischi che ne conseguono. «Mancano vere opportunità, e già il fatto che non esistano strutture né per i giovani né per gli adolescenti è un segnale del disinteresse delle istituzioni», spiega Miriam, che parla solo in italiano.
Può sembrare una banalità, in realtà la maggior parte dei suoi pari dialogano in dialetto, anche a scuola. Per questo da qualche tempo persino i dirigenti scolastici hanno imposto che si parli in italiano. «I giovani devono capire è la lingua a metterli in connessione con il resto del Paese, è un modo per aprirsi al mondo», ci spiega Carmela Rita Serafino. Lo stesso vale per Platì, il paese che l’attuale ministro dell’Interno, Marco Minniti, definì la Molenbeek della ’ndrangheta. Se la lotta alle ’ndrine si fa con le armi della cultura, qui la guerra dello Stato non è mai iniziata. «Ogni anno cambia il preside», racconta scoraggiato Fortunato Surace, reggente dell’istituto, «siamo in una scuola di frontiera, senza una palestra e senza molto altro da offrire. Oltretutto il Comune di Platì per 10 anni non ha avuto amministrazione, tra scioglimenti per mafia e elezioni saltate per mancanze di liste».
Surace non nasconde l’amarezza per il degrado educativo che tocca con mano in paese. Molti padri vivono al 41 bis, lontani dalle famiglie. E poi terminate le medie, chi vuole proseguire gli studi deve svegliarsi massimo alle 6 di mattina, correre a prendere l’unico autobus che porta ai comuni della costa. Lo stesso vale per chi vive a San Luca. Un viaggio che Miriam fa ogni giorno.

Roma è lontana

La grande rivoluzione a Cinque stelle a Ponte di Nona, estrema periferia di Roma, non è ancora arrivata. Solo Papa Francesco si è spinto fin qui, per visitare la parrocchia. Per l’occasione il parco che divide in due la strada è stato ripulito da erbacce alte quanto alberi. Ora è tornato al degrado di prima.
C’è una grande vasca che doveva raccogliere l’acqua piovana trasformata in discarica e un ponticello di legno con due pedane sfondate, dal quale i bambini rischiano di cadere se provano ad attraversarlo. Crescere a Ponte di Nona vuol dire fare i conti con l’indifferenza delle istituzioni. Anche in questo caso tolto il punto luce di Save the Children, gestito dall’associazione Santi Pietro e Paolo, e la scuola resta poco. Il centro è nel cuore della zona dello spaccio. A pochi metri da qui due anni fa c’è stata una sparatoria, due ragazzi sono morti. Erano del quartiere. I loro volti sono raffigurati su un murales. C’è, poi, una seconda area verde. Nell’aiuola che scorre in mezzo alla scalinata invece dei fiori c’è una distesa di sacchetti bianchi e azzurri della spazzatura. Il resto è abbandonato. «Chi vive qui non si sente di Roma», spiega Maria Rosaria Autiero, la preside dell’istituto comprensivo “Ponte di Nona-Lunghezza”, «per raggiungere il centro storico è un viaggio e anche nel lessico che utilizzano per indicare la città si percepisce questa distanza». Tanti ragazzi vivono con un solo genitore, molti padri sono in carcere. «È fondamentale lavorare con questi minori, perché vivono la situazione familiare con disagio, sono fragili e hanno una bassa autostima», racconta un’insegnate che da 20 anni lavora in questa scuola.

L’altro volto di Milano

Luca ha 13 anni e vive a Quarto Oggiaro, periferia milanese. Molti coetanei abbandonano la scuola, e molte famiglie non arrivano a fine mese. Vive in una piccola casa popolare, con le sorelle, la nonna e la mamma, che da sola si occupa di tutti, pur non avendo un lavoro fisso. Fa enormi sacrifici saltando da un piccolo lavoro saltuario a un altro per poter garantire ai suoi figli almeno i libri scolatici, cibo e vestiti. La sua più grande preoccupazione è poter dare un futuro ai propri ragazzi, lontano dalla strada. La vita di strada anche in questa periferia del Nord non è poi tanto differente dal resto d’Italia. Anche qui c’è una grande piazza di spaccio. Anche qui la criminalità cerca carne fresca da mandare al macello.
Luca fugge da tutto questo. Da un anno frequenta il Punto Luce di Save the Children, gestito dall’Acli di Milano. Qui è al sicuro, lo seguono nei compiti, viene sostenuto, e col tempo matematica, chimica e italiano, non sono più incubi ma materie da studiare per crescere. Il pomeriggio si dedica all’orto urbano che gli educatori hanno piantato nel suo quartiere. Ma la vera passione di Luca è la musica. Ha così iniziato un corso di pianoforte. Uno spartito lo salverà. Basta poco, in fondo.

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