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Pinocchio

di Matteo Garrone. Con Federico IelapiRoberto BenigniGigi ProiettiRocco PapaleoMassimo Ceccherini  Italia, Gran Bretagna, Francia, 2019

Il falegname povero Geppetto (Benigni) si fa dare dal collega ubriacone Mastro Ciliegia (Paolo Graziosi) un pezzo di legno per farne un burattino; questi gli dà un tronco di pino e Geppetto decide che la marionetta si chiamerà Pinocchio (Ielapi). Mentre lo lavora si accorge che sa parlare e, quando lo ha finito, vede che può anche muoversi e camminare. Pinocchio corre fuori felice, nella disperazione di Geppetto che lo cerca per tutto il paese; poi, stanco ed affamato torna a casa, accolto dai consigli e dai rimproveri del Grillo Parlante (Davide Marotta), al quale infastidito lancia un martello. Poi si addormenta davanti al fuoco e gli si bruciano i piedi. Geppetto, al ritorno, glieli rifà e si vende l’unica giacchetta per comprargli dal mercante (Sergio Forconi) un abecedario, perché l’indomani possa andare a scuola. Ma la vista del teatro dei burattini di Mangiafuoco (Proietti) lo attrae e, dopo aver rivenduto l’abecedario all’avido venditore per il prezzo del biglietto, vi si reca, bigiando la scuola. Nel teatro Pinocchio crea scompiglio perché gli altri burattini interrompono lo spettacolo per far salire sul palco la strana marionetta senza fili. Mangiafuoco lo imprigiona e la sera lo fa prendere dai gendarmi burattini (Massimo Viafora e Aldo Marinuccio) perché vuole usarlo come legna per arrostire il montone ma le sue lacrime lo fanno starnutire (segno di commozione) e si salva, come allo stesso modo salva Arlecchino (Claudio Gaetani) dalla medesima sorte. L’indomani Mangiafuoco, starnutendo a più non posso, libera Pinocchio e gli dona 5 zecchini d’oro. Lui, felice, sta tornando dal babbo ma per la strada incontra il Gatto (Papaleo) e la Volpe (Ceccherini), che dopo essersi fatti pagare una lauta cena, dicono a Pinocchio di aspettare l’alba lì all’osteria per potere andare nel Campo dei Miracoli, dove seminando le monete le troverà moltiplicate. Quando l’oste (Gigio Morra) lo sveglia e i due non ci sono; corre al luogo designato e trova due assassini intabarrati (sono il Gatto e la Volpe) che lo inseguono e lo impiccano, pronti a carpirgli le monete quando sarà morto, ma si addormentano e la fatina (Alida Baldari Calabria) lo scioglie e lo porta a casa sua, dove, con l’aiuto della Lumaca (Maria Pia Timo), lo cura e gli fa scoprire come le bugie gli facciano crescere il naso.

Non è il caso di proseguire oltre nel raccontare la notissima favola di Pinocchio. Basti dire che il film segue pedissequamente (anche troppo!) la trama del racconto con tutti i personaggi – più un maestro sadico (Enzo Vetrano), inopinatamente aggiunto – dalla Fata (Marine Vach), a Lucignolo (Alessio Di Domenicantonio), il Giudice Scimmia (Teco Celio), l’Omino di Burro (Nino Scardia), il Corvo direttore del circo (Massimiliano Gallo), il Tonno (Maurizio Lombardi) e il contadino Giangio (Domenico Centamore), fino al lieto (?) fine della trasformazione del burattino in un bambino vero.

La leggenda narra di una maledizione che voterebbe all’insuccesso le trasposizioni del romanzo di Collodi. Certo – a parte l’indimenticabile Le avventure di Pinocchio televisivo (1972) di Luigi Comencini (niente a che vedere con la miniserie del 2009 diretta da Alberto Sironi) –  finora una gran fortuna non l’hanno avuta, se si pensa al bel cartone di Walt Disney che fu (almeno inizialmente ma poi si riprese) un flop o ai due cartoni italiani – Un burattino di nome Pinocchio (1972) di Giuliano Cenci e Pinocchio (2012) di Enzo D’Alò, su disegni di Lorenzo Mattotti – e al didascalico Le avventure di Pinocchio (1947) di Giannetto Guardone (con un Gassman giovanissimo, irriconoscibile come Pescatore Verde) o all’imbarazzante Pinocchio (2002) di Roberto Benigni, vediamo una sequela di vistosi insuccessi. Il discorso vale anche per gli immaginari sequel Le straordinarie avventure di Pinocchio (1996) di Steve Barron e Il mondo è magia – Le nuove avventure di Pinocchio (1999) di Michael Anderson e per il fantascientifico Pinocchio 3000 (2004) di Daniel Robichaud; non ho invece notizie sugli esiti dei due film russi – Pinocchio/La chiavetta d’oro (1939) di Alexandr Ptsuko e Le avventure di Pinocchio (1959) di Ivan Ivanv-Vano e Dmitrij Babicenko – basati sulla rielaborazione di Tolstoj La piccola chiave d’oro o le avventure di Burattino, né del porno Le avventure erotiche di Pinocchio (1971) di Corey Allen, in cui la vergine Geppetta si costruisce un bell’amante da un tronco di pino, con comodo di naso allungabile. Garrone aveva già tentato il quasi colossal fiabesco ne Il racconto dei racconti, gravando tre splendidi racconti del Pentamerone – Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile di appesantimenti moralistici e toni incongruamente noir (laddove l’originale era grottescamente e allegramente popolano) ed ora torna con il libro di Collodi per il quale ha condiviso la sceneggiatura con Ceccherini. La scelta di partenza è già di per sé incongrua: il racconto segue, quasi passo passo, la trama della fiaba, non tenendo conto che il racconto a puntate di Collodi per il giornale Il Fanfulla terminava con l’impiccagione di Pinocchio (che moriva e tanti saluti!) e che l’autore – ben lieto di continuare ad essere pagato – aveva colto al balzo le proteste dei  lettori (che volevano un lieto fine) per allungare il brodo con tante puntate, ciascuna quasi a sé stante, con un alternarsi di personaggi e situazioni che tenessero avvinto il pubblico. Il film di Disney, non a caso, semplifica le vicende, certamente, da un lato, per ragioni economiche e di adattamento all’audience americana ma anche per dare un’unità narrativa a quella farraginosa sequenza di avvenimenti. Ma è nel passaggio dallo script alle immagini che vengono fuori tutti i limiti dell’operazione. Io non sono tra i fanatici del libro di Collodi (se non ci fosse stato Disney lo avrei detestato e dimenticato) ma riconosco al racconto e al personaggio un’allegra birbanteria e – quando viene fuori dalle spiacevolezze pedagogiche – una sua leggerezza, mentre Garrone lo appesantisce con scenari e colori costantemente cupi, sporcati, respingenti. Lo stesso si può dire della direzione degli attori: è come se Garrone intraprendesse una gara con se stesso nel rendere più grevi e scostanti i vari caratteri (a partire dai costumi: per tutti valga l’inguardabile Lumaca dell’incolpevole Maia Pia Timi): Pinocchio è un tristissimo legnetto pieno di venature; il Giudice fa rimpiangere i compostissimi personaggi dei vari Pianeta delle scimmie; Benigni, dopo essere stato un attempatissimo Pinocchio è un lagnoso Geppetto; delle due inespressive fatine è impossibile non dico innamorarsi ma nemmeno affezionarsi un po’; il Gatto non tiene neanche il proprio ritmo di eco balorda; Mangiafuoco più che pentito e commosso sembra affetto da disturbo borderline di personalità; il Grillo si merita in pieno la martellata che, purtroppo, non lo accoppa; si salva, in parte, la Volpe, cui evidentemente Ceccherini ha cucito addosso la propria materica arguzia toscana ma, addirittura, viene inserito – su echi tra Dickens e Com’era verde la mia valle – un odioso Maestro picchiatore che giustifica ampiamente la fuga di Pinocchio e Lucignolo. Evidentemente – sono tutti (o quasi) attori di ottimo mestiere – siamo di fronte ad una scelta registica che privilegia (come nel sopravvalutatissimo Dogman, nel quale i bagliori luciferini del personaggio di partenza, il canaro, si smorzano in lamentosi vittimismi) i toni bigi e marrone sporco di una poetica inasprita e incupita  che non sa raccontare sentimenti che non siano vagamente ricattatori e  rende ancor più incomprensibile la voglia di Pinocchio di abbandonare la sicura protezione del corpo di legno per entrare da essere umano nel brutto mondo di Garrone. Gli incassi – è un Natale con poche scelte – sono comunque buoni e i bambini si lasciano trascinare dai genitori a vederlo.

 

 

 




Dio è donna e si chiama Petrunya (Gospod postoi, imeto i’ e Petrunija)

di Teona Strugar Mitevska. Con Zorica NushevaLabina MitevskaSimeon Moni DamevskiSuad BegovskiStefan Vujisic  Macedonia, Belgio, Slovenia, Croazia, Francia 2019

Petrunya (Nusheva) vive a Stip, piccolo centro macedone; ha 32 anni, è laureata in storia ma non trova occupazione, vive con i genitori ed è grassoccia e poco curata. La madre, Vasca (Violeta Sapkovska), la sveglia perché deve andare ad un appuntamento per un lavoro di ufficio in una stireria; lei le risponde con malgarbo (tra le due c’è un rapporto difficile), si prepara in fretta ed esce. La sua amica Blagika (Andrijana Kolevska), che ha una relazione senza futuro con un uomo sposato e gestisce una minuscola boutique, le presta un vestito per il colloquio. Arrivata a destinazione, il boss (Mario Knezovic) sulle prime la prende in giro per la sua inutile laurea e per l’inesperienza lavorativa, poi le alza la gonna e le accarezza le cosce ma, quando lei lo respinge, lui le grida: “Non ti vorrei nemmeno per una scopata!”. Tornando a casa, Petrunya si trova al centro dell’annuale processione locale, alla fine della quale viene gettato un crocifisso nel fiume e l’uomo (a loro è riservata la cerimonia) che la ripescherà avrà un anno fortunato. Quando la croce arriva in acqua e gli uomini si sono tuffati, lei, d’istinto, si butta nel fiume vestita e la afferra. Arrivata a riva, resiste alle sollecitazione del prete (Begovski) e agli assalti dei più esagitati (Ilija Volcheski, Igor Todorov, Nenad Angelkovic) e se lo porta a casa, mentre il sacerdote investe del caso il capo della polizia locale (Damevski).  A casa ha una colluttazione con la madre che vuole che restituisca il crocifisso, mentre il padre, Stoyan (Petar Mircevski), cerca di difenderla. Arriva Blagika e anche lei cerca di convincerla e, avvertita da lei, arriva anche la polizia che la porta al commissariato. Intanto l’inviata televisiva Slavica (Mitevska), che è lì con il cameraman (Xhevdet Jashari) per un servizio sulla processione, decide di fare un ampio reportage su quella vicenda di arretratezza patriarcale e, dopo aver fatto qualche intervista, si piazza fuor dall’ufficio di polizia; poco dopo una telefonate del direttore di rete intima a lei e al tecnico di rientrare pena il licenziamento ma lei – dopo essersi fatta lasciare la telecamera – decide di restare. Petrunya resiste alle sollecitazioni dell’ispettore capo, del prete e del magistrato inquirente ((Bajrush Mjaku), nonché alle aggressioni dei nuotatori che vorrebbero linciarla, tacitamente appoggiata dal giovane agente Darko (Vujisic), con il quale nasce una affettuosa intesa. Alla fine le autorità sono costrette a rilasciarla e a ridarle il crocifisso ma lei, all’uscita, lo dà al prete: con lei ha già funzionato, facendole trovare un possibile amore e magari – grazie all’intervista ai suoi genitori che hanno chiesto che qualcuno la assumesse – anche un lavoro.

La Macedonia ha una buona tradizione di cinema, basti pensare ai pluripremiati Prima della pioggia (1994) e Dust (2001) di Milko Mancevski o alla partecipazione al nostro interessante Banat- Il viaggio (2015) di Adriano Valerio. Anche Teona Strugar Mitevska ha un bel medagliere di partecipazioni e premi ai festival di Toronto e Berlino ma con Dio è donna e si chiama Petrunya è stata per la prima volta in concorso nella selezione ufficiale dell’ultima Berlinale, ottenendo il Guild Film Prize e il Premio della Giuria Ecumenica. Non è un caso perché il film è una piccola ma potente opera, raccontata dalla macchina da presa, senza bellurie tecniche ma con grande efficacia narrativa. Agli attori – alcuni vengono dal teatro, altri sono semiprofessionisti ma sono tutti perfettamente in parte – la regista impone una recitazione efficacemente sobria, quasi in levare e così la Nusheva, famosa in patria come comica, dà alla sua Petrunya una profondità che cresce di scena in scena. La Mitevska, dopo essersi interrogata sulla matrice femminista del film, non la rinnega – la storia, in parte vera, porta alla luce un pezzo di società macedone al limite della misoginia medievale – ma tutte le figure presenti nel film sono raccontate con affettuosa empatia, talora ironica, talora dolente ma mai veramente giudicante. Un piccolo capolavoro da non mancare.

 

 




Cena con Delitto – Knives Out

di Rian Johnson. Con Daniel CraigChris EvansAna de ArmasJamie Lee CurtisMichael Shannon USA 2019

La cameriera Fran (Edi Patterson) porta la colazione al famoso scrittore di gialli ed editore Halan Trombey (Chistopher Plummer) e lo trova nel suo studio con la gola tagliata. La polizia sembra convinta che si sia trattato di un suicidio ma, all’improvviso, nella villa arrivano il tenente e l’agente Wagner (Noah Segan) che ricominciano ad interrogare tutti i familiari del morto accompagnati dal famoso criminologo e detective Benoit Blanc (Craig), il quale ha ricevuto del denaro con una lettera anonima che lo invitava a far luce sul caso, definendolo un omicidio. I parenti la sera del decesso erano tutti in villa per festeggiare il compleanno del decano. In quell’occasione, molti di loro avevano subito qualche grave torto dallo scrittore: al genero Richard Drysdale (Don Johnson) – marito della figlia Linda (Lee Curtis), ricca immobiliarista, e padre del dissoluto Ransom (Evans) – Harlan aveva fatto vedere una foto che lo ritraeva con un’amante, minacciandolo di informare la figlia, dalla quale lui dipendeva economicamente; Ransom aveva avuto una violente lite con il nonno che aveva dichiarato di volerlo diseredare; il figlio Walt (Shannon) – marito di Donna (Riki Lindhome) e padre di Jacob (Jaeden Martell), adolescente onanista e con sentimenti neonazisti – cui era affidata la società editrice che pubblicava i romanzi del padre si era visto licenziato su due piedi per aver tentato di convincerlo a cedere i diritti cinematografici dei suoi titoli; alla nuora Joni (Toni Collette) – vedova del primo figlio di Harlan, madre di Meg (Katherine Langford), proprietaria di una fallimentare ditta di cosmetici – il capofamiglia (avendo scoperto che lei incamerava, oltre al generoso assegno con cui lui la manteneva, anche i soldi della ricca retta per gli studi della figlia) aveva deciso di tagliare i fondi. C’è poi l’anzianissima madre dello scrittore, Wanetta (K Callan), che ha visto tutto ma non sembra in grado di parlare. Tutti cercano, sulle prime, di negare e comunque proclamano amore e devozione per il defunto e Benoit indirizza le sue attenzione verso l’infermiera Marta Cabrera (de Armas) – giovane e onesta ragazza di origini ecuadoriane che deve proteggere la madre (Marlene Forte) a rischio di espulsione perché entrata clandestinamente negli USA. – che è affetta da una sindrome che le induce il vomito se dice una bugia. Lei ha un segreto da nascondere: nel fare le consuete due iniezioni serali ad Halan, si era accorta di aver sbagliato boccetta e di avergli inoculato una dose mortale di morfina; lo scrittore, che le voleva bene, le aveva imposto di non dire nulla e si era tagliato la gola per fuorviare eventuali indagini. Benoit la nomina sua assistente nelle indagini e lei cerca di nascondere (sempre senza mentire) tutte le tracce che potrebbero evidenziare il reale accaduto. Il giorno dopo arriva il notaio Stevens (Frank Oz)  che legge il testamento dello scrittore nel quale l’infermiera è nominata erede universale. Tutta la famiglia le si avventa contro tranne Ransom che la porta in salvo, le estorce (sapendo della sua sindrome) la verità e si offre di aiutarla contro l’avidità dei suoi parenti, che lui detesta …

Alla fine degli anni ’70 Neil Simon aveva scritto due commedie cinematografiche, Invito a cena con delitto e A proposito di omicidi, che – entrambe con un cast ricchissimo – parodiavano i generi del romanzo poliziesco. Cena con delitto (titolo italiano evidentemente allusivo al primo lavoro di Simon ma non propriamente esplicativo: il titolo orinale si potrebbe tradurre con un più pertinente Fuori i coltelli) ha un’ironia di fondo ma non lo si può definire una parodia; il nome francesizzante del protagonista, sembra semmai alludere al Poirot di Agatha Christie; l’impianto narrativo e la presenza di attori famosi in molti ruoli rimandano, infatti, ai due Assassinio sull’Orient Express e ad Appuntamento con la morte, Assassinio sul Nilo e Delitti sotto il sole , tutti con al centro l’investigatore belga. Forse, però, oltre a qualche assonanza con le riduzioni cinematografiche di Dieci piccoli indiani (11, se si considerano anche le libere trasposizioni come 5 bambole per la luna d’agosto di Mario Bava e il soft-porno Vergini corpi frementi), il romanzo della Christie che più ha ispirato il regista e scrittore Rian Johnson (Star Wars – Gli ultimi Jedi, Looper) è E’ un problema (dal quale è stato tratto il film Mistero a Crooked House), con delitti un una lussuosa villa e un investigatore più adiacente per età e fisicità a Daniel Craig. La qualità del film e il suo buon esito sono un’ulteriore prova (vedi anche qualche recente titolo italiano) della rinascita al cinema del poliziesco del genere whodunit (letteralmente: chi l’ha fatto, cioè giallo d’indagine), anche in un mercato ostico alla riflessività come quello americano (negli USA ha incassato 53 milioni). Non è una cattiva notizia per vecchi appassionati come noi.

 




Un Giorno di Pioggia a New York (A Rainy Day in New York)

di Woody Allen Con Timothée ChalametElle FanningSelena GomezJude Law USA 2019

Ashleigh Enright (Fanning) – studentessa di lettere all’Università di Yardle in Pennsylvania,  proveniente da una famiglia benestante di Tucson – ottiene un’intervista a New York per il giornale del college con il famoso regista Roland Pollard (Liev Schreiber) e ne è entusiasta. Il suo ragazzo, Gatsby Welles (Chamelet), figlio di facoltosi newyorkesi, che ha appena vinto 20.000 dollari a poker, si offre di accompagnarla: prenderanno una suite in un bell’albergo e, finita l’intervista, lui le mostrerà la città, badando a non far sapere a sua madre (Cherry Jones) che sono lì, altrimenti dovrà partecipare al noioso party che lei ha organizzato. L’intervista va benissimo e il regista, depresso e in crisi, invita Ashleigh alla proiezione di lavoro del suo ultimo film. Lei ne è felicissima e sposta l’appuntamento a pranzo con il fidanzato. Lui ci rimane un po’ male e va a fare una passeggiata e incontra il suo ex-compagno di scuola Josh (Griffin Newman), ora studente di cinema, che sta girando un film-saggio di fine anno; l’amico gli chiede di fare una piccola parte ed eccolo seduto in macchina accanto a Chan (Gomez), sorella minore di una sua fiamma adolescente. La scena prevede che loro si bacino ma Gatsby – per fedeltà a Ashleigh – lo fa a bocca chiusa; lei lo prende in giro e al terzo ciac lo bacia sul serio. Intanto alla proiezione Pollard ha una delle sue crisi e abbandona la sala, esclamando che il film è una porcheria; lo sceneggiatore Ted Davidoff (Law), sentendo che Ashleigh ne è incantata, le chiede di andare con lui a cercarlo, prima che, ubriaco fradicio, ne sconvolga il montaggio. Comincia un acquazzone e, mentre è in macchina con la ragazza, Ted vede la moglie Connie (Rebecca Hall) che entra nella casa del suo migliore amico e capisce che sono amanti; aspetta che esca, si precipita a farle una scenata e, discutendo, si allontana e prega Ashleigh (che aveva di nuovo telefonato al sempre più perplesso Gatsby per annunciargli un nuovo ritardo) di andare da sola a cercare Roland. Il ragazzo era stato a trovare il fratello Hunter (Will Rogers), che gli confida di essere in crisi perché sta per sposare la fidanzata Lily (Annaleigh Ashford) ma detesta la sua squillante risata e lo invita a prendere il suo posto in una partita a poker alla quale lo hanno invitato; lui, però, pensa che non andrà per stare con Ashleigh. Uscendo sotto la pioggia, Gatsby prende al volo un taxi, sul quale sta per salire anche Chan. Fanno il viaggio, contrappuntato dalle frecciatine di lei sul supposto provincialismo di Ashleigh. Lei si deve cambiare e lui sale a casa sua e decidono di andare al Museo Metropolitan prima dei rispettivi appuntamenti (lei deve vedere un dermatologo, suo nuovo corteggiatore). Al M.E.T., mentre lei gli confida che da ragazzina era innamorata di lui, incontrano gli zii di Gatsby (Mary Boyer e Ted Neustadt); lui è così costretto a telefonare alla madre – con la quale è da sempre in disagio per la sua ansia nell’incitarlo ad acculturarsi –  e a prometterle che sarà al party insieme ad Ashleigh. La ragazza, intanto, è andata negli studi dove lavora Roland, lui non c’è ma incontra il divo sex-symbol Francisco Vega (Diego Luna), che la invita a cena; lei accetta e fa l’ennesima telefonata a Gatsby, che, tristissimo, va alla partita di poker, vincendo 15.000 dollari. Dopo la cena Vega e Ashleigh vanno ad un party dove sono anche Roland e Ted; entrambi ci provano con lei ma quando Francisco le chiede di andare da lui, lei – con il cuore in tumulto – accetta e stacca il telefonino. Quando è, spogliata, a casa di lui arriva però la sua fidanzata Tiffani (Suzy Waterhouse) e lei è costretta a scappare sotto la pioggia scrosciante, coperta solo da un impermeabile che ha preso nel guardaroba. Gatsby ha deciso di bere per dimenticare e al bar viene rimorchiato dalla escort Terry (Kelly Rohrbach) che gli chiede 500 dollari per fare all’amore, lui gliene offre 5.000 se lo accompagnerà alla festa di famiglia fingendosi Ashleigh. Lei accetta ma la madre – dopo un po’ – la prega di andarsene e rivela al figlio che il suo snobismo e la sua attenzione alla cultura sono il frutto di una vita molto meno dorata ed irreprensibile di quanto lui avesse pensato. Questa rivelazione riconcilia Gatsby con lei e con New York e fa dare una svolta alla sua vita.

Woody Allen è, lo sappiamo, un autore molto prolifico e da vario tempo, quasi ogni anno fa uscire un suo nuovo film. Non sono tutti capolavori naturalmente ma in ognuno è riconoscibile il suo tocco.  Un giorno di pioggia a New York è un capitolo del suo filone più personale: l’amore per la new York un po’ snob, un po’ cafona, un po’ raffinata dei quartieri alti. Qui lui le dichiara una piena dedizione, facendo dire al suo giovanissimo alter ego: “New York fa i suoi programmi” (e decide per te). Non mancano le citazioni cinefile (Le catene della colpa di Jacques Tourneur ma anche i suoi Stardust Memories e Manhattan), i brani musicali vintage (6 pezzi di Erroll Garner e Everything happens to me di Carmichael e Mercer cantata dal protagonista) e il sottilmente doloroso cinismo con il quale si affrontano e si eludono le piccole, grandi angosce quotidiane. Lui è bravissimo nell’ottenere il meglio dagli attori (che, sapendolo, accettano una paga al minimo sindacale) e qui non fa eccezione: forse Chamalet è leggermente meno credibile degli altri ma i divi Law e Scheiber si ritagliano alla perfezione due misuratissime caratterizzazioni, la Gomez è garbatamente irruenta ma la più inattesa è la “Bella Addormentata” Fanning che ci dà una Ashleigh tosta e fragile, acerba e sensuale di grande efficacia. Storaro ha, dopo Cafè Society e La ruota delle meraviglie, trovato la giusta chiave di rapporto con il regista e la sua New York piovosa è un bell’inno ai suoi colori autunnali e alla loro eco nel profondo. Il film, si sa, ha avuto problemi distributivi: durante la lavorazione di quello che doveva essere, per contratto, il primo di cinque film, una modella aveva dichiarato che nel 1976, quando lei aveva 16 anni, aveva cominciato una storia di otto anni con Allen. La Amazon ha annullato la distribuzione del film e ha annullato gli altri titoli (?!). Chamalet, la Gomez, la Hall e Newman hanno donato i loro (peraltro, abbiamo visto, non astronomici) emolumenti. Non entriamo nel merito (ferme restando le perplessità su denunce più che postdatate di vecchie amanti): come nel caso di Polanski, ci interessa il film e non i casi personali dell’autore e il film è una delizia.

Antonio Ferraro




L’Ufficiale e la Spia (J’Accuse)

di Roman Polanski. Con Jean DujardinLouis GarrelEmmanuelle SeignerGrégory Gadebois,  Francia – Italia 2019

Francia 1894, il maggiore Alfred Dreyfus (Garrel), ebreo alsaziano, accusato di tradimento e spionaggio viene degradato e condannato all’isolamento sull’Isola del Diavolo. Un anno dopo il suo ex-superiore, il maggiore Jacques Picquart (Dujardin), ottimo militare con qualche pregiudizio antisemita, viene nominato capo della sezione dell’Ufficio Informazioni dello Stato Maggiore. Arrivato nella sua nuova sede, vede che gli uffici sono in pessime condizioni, sporchi ed impolverati e che la disciplina e la solerzia degli addetti sono assai carenti; in particolare il suo comandante in seconda, il maggiore Henry (Gadebois) – forse irritato per non essere stato lui promosso a quel ruolo – è ostile e sfuggente, in particolare, in relazione ad un carteggio, sul quale sta indagando, relativo ai rapporti del maggiore Esterhazy (Laurent Natella) con i servizi segreti tedeschi. Picquart decide di avocare a se l’indagine e così scopre che la grafia del sospettato è identica a quella del borderò che era stato il principale elemento di accusa contro Dreyfus. Per maggior sicurezza si rivolge (senza però rivelare le fonti dei fogli che gli sottopone) al criminologo e grafologo Bertillon (Mathieu Amalric) – che al processo aveva definito la grafia del documento come appartenente a Dreyfus ma da lui stesso falsificata per depistare eventuali sospetti-  e questi deve riconoscere che la scrittura di Esterhazy è identica a quella del borderò. Picquart si rivolge ai propri superiori perché sia riaperto il processo ma ottiene un diniego: al tribunale di allora, gli viene detto, era stata presentata un’ulteriore prova (alla quale – per ragioni di sicurezza nazionale – l’imputato e i suoi difensori non avevano avuto accesso) che lo inchiodava. Continuando a cercare tra le carte di Henry, Picquart trova quel dossier e vede che è, in pratica, la lettera di un complice italiano di Esterhazy che, ad un certo punto dice “quella carogna di D.”. A questo punto, lui insiste ma, stavolta i suoi superiori gli leggono – senza fargliela vedere – una lettera nella quale viene fatto a chiare lettere il nome di Dreyfus. Lui viene mandato in una lunga ed inutile missione all’estero e Henry messo al suo posto. Al ritorno, è ancora intenzionato a chiedere giustizia ma un giornale pubblica uno dei documenti ai quali solo lui (ed Henry) hanno accesso; lui viene recluso in una fortezza (mantenendo i gradi) ma il marito (Luca Barbareschi) della sua amante, Pauline Monnier (Segnier), un alto funzionario governativo, viene informato della loro relazione e reagisce cacciandola di casa e precludendole la possibilità di vedere le figlie. Picquart, aiutato dalla amico avvocato Leblois (Vincent Perec), aveva incontrato l’editore politico Clemeceau (Gerard Chaillou) e lo scrittore Emile Zola (Andrè Marcon) e questi – sul giornale L’Aurore edito da Clemeceau – farà uscire il famoso articolo, dal titolo J’accuse, nel quale rivelava tutto il complotto, mentre Esterhazy era stato, in sordina, processato e assolto. Si apre un procedimento a carico di Zola, che è difeso dal bravissimo avvocato Labori (Melville Poupaud), con tutto lo Stato Maggiore schierato minacciosamente in prima fila ed è subito chiaro da che parte stia il giudice Delegorgue (Bruno Raffelli). Picquat, interrogato, dice la sua verità, interrotto da Henry che lo accusa di falso, provocando una sfida a duello. Zola, tra l’entusiasmo degli alti ufficiali presenti, viene condannato e anche per Picquart si aprono le porte del carcere. Prima però aveva avuto luogo il duello e Henry era stato ferito e, qualche tempo dopo, aveva confessato di essere lui l’autore della lettera che incolpava esplicitamente Dreyfus per poi suicidarsi in prigione. Picquart viene riabilitato e Dreyfus viene richiamato a Parigi per un nuovo processo ma Labori, prima dell’udienza definitiva, cade vittima di un attentato e il dibattimento si chiude, quasi salomonicamente, con una condanna attenuata da cervellotiche attenuanti generiche. Pochi anni dopo il Governo concede la grazia a Dreyfus e Picquart cerca di convincerlo a non accettarla perché si fatta luce sulla sua innocenza ma lui, stanco e sfiduciato, accetta. Pochi anni dopo otterrà l’assoluzione piena e il reintegro nei gradi precedenti. Nel 1907 lui va da Picquart, ora generale e Ministro della Guerra, per chiedere che gli vengano riconosciuta l’anzianità ingiustamente persa negli anni della condanna ma Picquart gli spiega che il clima politico non gli consente di prendere un tale provvedimento. Sarà il loro ultimo incontro.

Un film di Polanski è sempre un avvenimento cinematografico e L’ufficiale e la spia non è certo da meno. Credo, in premessa, che sia il caso di sgombrare il campo da banali riferimenti ai casi personali del regista, se non per sottolineare la conformistica mediocrità dell’uscita della dimenticabile Presidente della Giuria dell’ultima Biennale di Venezia che ha, nei fatti, negato all’opera il meritatissimo massimo premio (si è arrivati al compromesso di un Gran Premio della Giuria). L’ “affare Dreyfus” è stato una forte fonte di ispirazione, lo ricordiamo, oltre che per Zola – che lo ha sollevato – anche per Marcel Proust che, entusiasta della figura di Picquart, vi aveva incentrato il suo primo romanzo Jean Senteuil per poi attribuire ad alcuni personaggi della Recherche posizioni opposte sulla vicenda, definendone così i caratteri. Il cinema, poi, se ne è interessato sino dagli albori: nel 1899, all’indomani del processo di riabilitazione, George Mèliés dirigeva e interpretava il contestatissimo L’Affaire Dreyfus; anni dopo Josè Ferrer gira ed interpreta L’affare Dreyfus (1958) e nel 1981 Ken Russell gira per l’emittente HBO Prigionieri dell’onore con Oliver Reed e Richard Dreyfuss. Sono film onesti ma L’ufficiale e la spia è tutt’altro: è una splendida, potente e personalissima opera. Nei film del regista, a partire, da Il coltello nell’acqua, c’è spesso un “ebreo” – inteso come vittima, non necessariamente come appartenente alla religione israelitica – che, con toni diversi e alterne fortune, deve salvarsi dalla violenza del mondo: è così, ad esempio, in Cul de sac, in Per favore non mordermi sul collo, in Rosemary’s Baby, in Chinatown, ne La nona porta, ne Il pianista e, naturalmente ne L’uomo nell’ombra, anch’esso tratto da un romanzo di Richard Harris (che nel caso de L’ufficiale la spia era stato spinto da Polanski stesso a scrivere su Dreyfus). Insieme al regista e ad un grande cast, con ottimi attori anche nei ruoli minori (tra i quali Barbareschi, anche coraggioso co-produttore), compongono un affascinante quadro la livida e pungente fotografia di Pawel Edelman (a fianco di Polanski da Il pianista) le scenografie, claustrofobiche quanto serve, di Philippe Cord’homme e i costumi “parlanti” di Pascaline Chavanne. Un grande film che rimarrà nella storia del cinema.

 

 




Sono Solo Fantasmi

dChristian De Sica. Con Christian De SicaCarlo BuccirossoGianmarco TognazziIppolita BaldiniFrancesco Bruni   Italia 2019

Thomas (De Sica) è un prestigiatore in declino e, dopo un’epoca di successi televisivi, è ora ridotto a fare il mago-animatore nelle feste dei bambini e neanche lì gli va bene se, dopo che ha ammazzato – invece di farlo scomparire – il sono solo faconiglio nel cilindro, il gestore del locale (Stefano Ambrogi) lo caccia via senza pagarlo. La sua ex-moglie (Nadia Rinaldi), oltretutto, minaccia di rovinarlo se non pagherà gli alimenti e l’affitto della casa dove lei lo ospita. Da anni non vede il fratello Carlo (Buccirosso), che ora vive a Milano con una moglie ricca, Serena (Baldini), che lo tratta come un cameriere. Ad entrambi arriva una telefonata in stretto dialetto puteolano: sono i camerieri del padre, Dante (Bruni) e Rosalia (Valentina Martone), che comunicano loro il decesso del padre. I due vano nella (un tempo lussuosa) casa di famiglia, accolti da un vecchio aristocratico (Leo Gullotta), che ricorda con ammirazione la classe con la quale il defunto perdeva interi capitali al gioco e da una nobildonna (Marzia Onorato) che presenta loro Ugo (Tognazzi), il terzo fratello (un tipo strano che sente le voci ed entra ed esce dalla clinica psichiatrica), che il padre aveva concepito quando loro erano già partiti. Il notaio (Gianni Parisi) conferma i loro sospetti: i debiti di gioco hanno azzerato tutte le proprietà e sulla casa grava una forte ipoteca che va saldata in poco tempo. La sera, mentre i fratelli confessano i propri fallimenti, delle urla provenienti dal piano di sotto li disturbano. Thomas bussa alla porta e gli apre una scarmigliata signora (Mimma Lovoi) che gli confessa di essere tormentata dal fantasma della sorella e che, riconoscendolo, gli promette 300.000 euro se la libererà dalla presenza. Eccolo tornare con i fratelli e Ugo – che non vedeva l’ora di dimostrare che le voci che sentiva non erano frutto della sua psiche malata – provvede, grazie ad un amuleto egizio e ad una formula suggerita a Thomas, ad imprigionare il fantasma in un barattolo di vetro. La notizia fa il giro di Napoli e i tre si ritrovano richiestissimi acchiappa-fantasmi (o, come loro si definiscono, “paranormal operators”). Quando poi riescono a salvare il proprietario (Tommaso Bianco) del famoso ristorante “La cozza d’oro” dal “fantasma scoreggione” che gli lorda il locale, la loro fama e i loro guadagni salgono vertiginosamente ma un giorno, in un teatro infestato, lo spirito di una vecchia (Graziella Marina) fa fuggire Thomas urlandogli che la mitica strega Janira è arrabbiata e che darà fuoco a Napoli. Da quel momento una serie di incidenti li porteranno sull’orlo della disfatta: Serena arriva a Napoli e fa una scenata a Carlo rompendo alcuni barattoli, tra cui quello con lo spirito del padre che si impossessa di lui facendogli perdere  al gioco tutta la somma che, insieme ai fratelli, aveva messo da parte per riscattare la casa; le guardie di finanza vengono a sequestrare l’appartamento  e, mentre radunano i mobili, fracassano tutti gli altri contenitori di fantasmi e, infine, la Janira esce dalla tomba per vendicarsi col fuoco dei napoletani che la avevano secoli prima condannata al rogo. Ma i tre fratelli non sono paranormal operators per caso…

De Sica regista è prolifico e discontinuo: i 9 film che ha al suo attivo vanno dalla commedia caciarona, più o meno grassoccia e scatologica, (Ricky e Barabba, Il conte Max, Amici come prima), al tentativo generoso ma non riuscitissimo di un cinema di livello sovranazionale (3 e The Clan) al racconto sorridente ma con tratti di tenera profondità (Faccione, Simpatici e antipatici e, soprattutto, l’ispirato Uomini, uomini, uomini). Sono solo fantasmi è, va detto, un’operazione in parte mancata: se da un lato i primi incassi non sono quelli di una tipica commedia di De Sica, dal punto di vista  della resa cinematografica sembra un prodotto ibrido – nonostante il soggetto sia di Nicola Guaglianone, autore di alcuni dei più recenti successi (Lo chiamavano Jeeg Robot, L’ora legale, Benedetta follia, La befana vien di notte, Non ci resta che il crimine), la sceneggiatura di Andrea Bassi, Luigi Di Capua e dello stesso De Sica sembra un patchwork di altri film: oltre che dai Ghostbusters,  ci sono citazioni da Il vedovo, L’oro di Napoli, il secondo Conte Max (quello con Alberto Sordi e Vittorio De Sica), Una vita difficile, Questi fantasmi e via rammentando. In realtà il film sembra attraversato da due elementi extra-narrativi: il desiderio (così come era successo ne Il premio di Alessandro Gassmann) di riannodare i fili del rapporto con una padre ingombrantissimo (e qui il grande Vittorio, riprodotto alla perfezione dal figlio è, non a caso, il deus-ex-machina della vicenda) ma anche la riconversione da un progetto iniziale diverso: una sorta di remake-parodia de L’Oscar insanguinato (il delizioso horror del ’73 di Douglas Hickox nel quale un Vincent Price in stato grazia interpreta un attore deluso che uccide, con modalità tratte dai drammi di Shakespeare, i critici che gli hanno negato un riconoscimento). Il risultato è confuso, nonostante la bravura del cast (oltre ai tre bravi protagonisti, la selezione dei caratteri è accuratissima ed efficace), la fotografia dell’emergente Andrea Arnone e i costumi di Nicoletta Ercole. Alla fine si fa notare e ricordare soprattutto la canzone del rapper Clementino che restituisce – meglio di gran parte delle immagini – quel sapore tra l’ironico e il semiserio che dovrebbe essere la chiave del film.




Motherless Brooklyn – I segreti di una città (Motherless Brooklyn)

di Edward Norton. Con Edward NortonBruce WillisGugu Mbatha-RawAlec BaldwinWillem Dafoe  USA 2019

Anni ’50 a New York. Lionel Essrog (Norton) – intelligente ed acuto ma affetto dalla sindrome di Tourette, che lo fa sbottare in frasi sconnesse e talora sconce con accessi di tic – e Gilbert Coney (Ethan Suplee) – buono ed affidabile ma un po’ tonto – aspettano in macchina il loro capo, il detective Frank Minna (Willis) che ha un rischioso appuntamento; poco dopo arriva il costruttore William Lieberman (Josh Pais), con tre scagnozzi, uno dei quali è un vero gigante (Radu Spinghel); Lionel si è piazzato in una cabina telefonica e, grazie all’accorgimento di Frank di lasciare la cornetta del telefono staccata, sente che Lieberman non è soddisfatto di un incartamento che Frank gli consegna; quando il loro capo lancia un segnale convenzionale e subito dopo sale in macchina con i quattro, i due investigatori si lanciano all’inseguimento ma, poco dopo, lo raccolgono ferito in un vicolo. Morirà quasi subito in ospedale. Julia (Leslie Mann), la moglie di Frank non dà segno di particolare dolore, anzi incarica rabbiosamente l’ex-braccio destro del marito, Tony Vermonte (Bobby Cannavale), di guidare l’agenzia che lei ha sempre detestato; lì, oltre a Lionel, Tony e Gilbert, lavorano Danny (Dallas Roberts) e Lou (Fisher Stevens) e sono tutti ex-convittori di un orfanotrofio retto da perfide suore cattoliche, dove sia Frank che Tony avevano preso sotto la loro protezione il fragile e maltrattato Lionel. Lui ora ha deciso che troverà chi ha ucciso il suo capo ed amico e – sulla base di quello che ha sentito – si mette alla ricerca di una donna di nome Horowitz e di una ragazza il cui padre ha un locale jazz ad Harlem. Intanto il nuovo Sindaco (Peter Lewis) sta dando le deleghe agli assessori e il potentissimo costruttore Moses Randolph (Baldwin) lo costringe a concedergli – insieme ad altri incarichi di peso – anche quella dell’Urbanistica. Lionel rintraccia Gabby Horowitz (Cherry Jones): è la leader di un centro che combatte contro le ingiustizie abitative e la segue quando, accompagnata da Laura Rose (Mbatha-Raw), va ad un assemblea di confronto con Randolph. Qui sottrae il tesserino di giornalista al reporter del “Post” Jacob Gleason (Nelson Avidon) e, fingendo di voler scrivere un articolo, accosta Paul (Dafoe), un contestatore male in arnese che gli scagnozzi di Moses avevano buttato fuori. Questi gli spiega che il costruttore, grazie al suo potere politico, scaccia i poveri – soprattutto i neri – dalle loro case per costruirvi lussuosi centri. Indagando, Lionel scopre che Paul è un ingegnere e che è il fratello di Moses e, infiltratosi in una cena di costruttori in onore dell’assessore, lo vede supplicarlo di prendere in considerazione un suo progetto. Girando per Harlem vede Laura che entra in una casa apparentemente abbandonata; la segue e viene abbattuto dal pugno dell’occupante dell’appartamento (Yinka Adeboyeku); quando si riprende dice anche a Laura di essere un giornalista e che vuole scrivere sulla speculazione in atto. Lei gli crede e si fa accompagnare nel locale di suo padre Billy (Robert Wisdom): è lei la ragazza della quale parlava Frank. Nel locale suona un formidabile complesso jazz, guidato dal trombettista Wynton Marsalis (Michael K. Williams) e Laura, assediata da un corteggiatore (Luis De Castro Leon), lo invita a ballare con lei; poco dopo, però, sovreccitato dalla tensione erotica del contatto con lei, si stacca a va nel retro, dove Bill e il corteggiatore lo assalgono. Wynton lo raccoglie svenuto, lo porta a casa sua e, l’indomani mattina, gli spiega che Bill era un ottimo trombonista che, tornato dalla guerra senza un braccio, aveva aperto il locale e si era dedicato con grande dedizione a Laura, sempre mostrando la cupezza di chi ha un grave segreto nell’anima. Poco dopo lui va da Laura e passa la notte con lei, raccontandole l’indomani mattina la verità sulla sua indagine. Poco dopo anche Billy viene ucciso e lui, che ha trovato in una cassetta di sicurezza (la cui chiave Frank aveva nascosto nel cappello), un documento che rileva le vere origini della ragazza, corre al locale perché capisce che lei è in grave pericolo….

Norton è sicuramente uno dei migliori attori della scena americana ed è alla seconda regia: il suo primo film, Tentazioni d’amore dl 2000, era una commedia con ironiche considerazioni sulla religione. Per questo film si è affidato al romanzo dello scrittore Jonathan Lethem, che oltre all’autobiografico La fortezza della solitudine, è autore di bei romanzi di genere (prevalentemente sci-fi) con una forte valenza di avanguardia narrativa. Norton ha mantenuto l’atmosfera letteraria del testo – con molti inserti esplicativi in voice-over – con un occhio al vecchio hard-boiled (il tipico giallo all’americana): il suo personaggio di riferimento non è, però, il Philip Marlowe di Raymond Chandler, il Sam Spade o il Continental Op di Dashiell Hammett, il Lew Archer di Ross Macdonald, né ovviamente il Mike Hammer di Mickey Spillane, semmai lui dichiara di aver tratto ispirazione dal film di Polanski Chinatown e dal suo sballottato investigatore Jake “J.J.” Gittes , aggiungendovi i tic (in quel caso finti) del suo personaggio nel film The score. Il film sconta la letterarietà di partenza ma ha non pochi pregi: dal punto di vista narrativo la solo parziale sconfitta dei corrotti dà al racconto una dolce-amara valenza realistica che il genere spesso non sa esprimere, gli attori sono tutti bravi (magari il Norton regista è un po’ troppo indulgente con il Norton gigione), la livida atmosfera hopperiana è ben resa dal “cinematographer” Dick Pope e le musiche cool jazz di Daniel Pemberton sottolineano con efficacia il racconto. La rarefatta qualità del film e la sua voluta patina di modernariato fanno sì che gli incassi non siano certamente esaltanti.

 




L’Uomo del Labirinto

di Donato Carrisi. Con Toni ServilloDustin HoffmanValentina BellèVinicio MarchioniCaterina Shulha Italia 2019

Samantha Andretti (Bellè) a quindici anni dal suo rapimento è stata trovata in un bosco con una gamba rotta e con grandi vuoti di memoria, dovuti alle droghe con cui era stata ininterrottamente tenuta sotto controllo dal rapitore. Di lei si occupa, in clinica, il profiler dottor Green (Hoffman), con il quale lei ha sprazzi di ricordi di una prigione/labirinto e di giochi sadici condotti da un uomo con una maschera di coniglio. Anche il cinico detective privato Bruno Genko (Servillo) – che normalmente si occupa di recupero crediti – ha deciso di seguire il caso; anni prima la famiglia della rapita, conoscendo la sua abilità nel ritrovare i debitori, gli aveva chiesto di cercarla ma lui aveva svolto il compito con scarso impegno e – ora che ha saputo di avere una malattia cardiaca che gli lascia poco tempo di vita – ha deciso di dare la caccia ai rapitori. La sua amica Linda (Shula), una prostituta che, nonostante tutto, gli è affezionata riesce a raccogliere notizie da un cliente e Genko va a parlare, in un locale malfamato, con l’uomo (Stefano Rossi Giordani) che la ha ritrovata; lui ha il viso e la bocca devastati da cicatrici e, dopo un’iniziale reticenza, gli dice che accanto alla ragazza c’era un uomo-coniglio. Lui va nell’ufficio di polizia che si occupa di persone scomparse; qui l’agente Simon Berish (Marchioni) – a sua volta preoccupato per la misteriosa assenza della sua collega – gli fornisce la pista di un bambino, Rizzo, che era stato rapito, era riuscito a scappare dopo tre giorni e, inspiegabilmente, poco tempo dopo, aveva seppellito vivi i conigli della fattoria/casa-famiglia che lo ospitava. Genko ci va e trova un edificio fatiscente, dove una vecchia zoppa (Carla Cassola), la signora Wilson, lo accompagna in cantina e gli dà un giornalino che il bambino leggeva, “Bunny”, dopo di che lo tramortisce con una stampella. Lui riesce a fuggire e va da Mordecai Luman (Luis Gnecco), esperto di fumetti, che gli spiega che “Bunny” è un numero unico e, con l’aiuto di uno specchietto, gli mostra come le sue immagini di animaletti siano in realtà disegni satanici. Linda sembra aver trovato una nuova pista ma quando Genko va da lei la trova morta: lei è stata uccisa con una scultura che rappresenta un unicorno e nella vasca da bagno c’è, ferito, il suo ultimo cliente, che ha intravisto l’assassino. Dai due poliziotti accorsi (Orlando Cinque e Filippo Dini) – che lo detestano ma ne conoscono il fiuto – ottiene di poter parlare con la moglie del ferito, signora Lai (Marta Paola Richeldi). Lei sospetta del loro giardiniere (Paul MacInsky), uno strano individuo con una deturpante voglia in faccia, che è appena sparito e Genko va nella parrocchia che l’uomo frequentava. Giuntovi, scopre che anche Rizzo vi andava da bambino e il prete (Diego Facciotti) lo indirizza dal sacrestano Bunny (Sergio Leone). Dopo vari colpi di scena, le intricate vicende si comporranno nella soluzione.

Il coniglio gigante come presenza inquietante ha avuto, nel cinema varie declinazioni: si parte dal simpatico Harvey, amico immaginario (ma, forse, non troppo) di James Stewart nel film Harvey di Harry Koster (1951), arrivano poi l’inquietante alter-ego di Donnie Darko, nel film del 2001 di Richard Kelly e il sanguinario persecutore di sopravvissuti alla catastrofe nucleare dell’ingiustamente ignorato La notte eterna del coniglio de 2006, diretto da Valerio Boserman; volendo allargare i riferimenti si possono includere nell’elenco anche Chi ha incastrato Roger Rabbit? di Robert Zemeckis, uscito nel 1988 (dove il coniglio, però, è il perseguitato) e – per libera associazione di idee – La notte pazza del conigliaccio nel quale Alfredo Angeli nel 1967 racconta le tragicomiche conseguenze di una notte brava di un impiegatuccio. Nel 2017 l’esordio alla regia del giallista Donato Carrisi, La ragazza nella nebbia, sembrava aver segnato la nascita di un regista di thriller solidi ed efficaci (al botteghino si registrarono incassi per circa 4 milioni) e ridato respiro al giallo all’italiana che aveva avuto momenti di grande impatto. Il genere è databile, soprattutto, dagli  anni ’60 in poi – nel periodo fascista i due film di Raffaello Matarazzo, L’anonima Roylott e Joe il rosso, peraltro non certo memorabili, non avevano avuto epigoni perché il regime (così come aveva  fatto togliere la cronaca nera dai giornali)  non amava i racconti di delitti  e il cinema del dopoguerra era concentrato tra la commedia ed il neorealismo – con autori di varia qualità e un solo vero, grande capolavoro: Un maledetto imbroglio di Pietro Germi (1959). Si sono cimentati nel genere Luigi Comencini (Senza sapere niente di lei del 1969, La donna della domenica, 1975), Tinto Brass (Col cuore in gola, 1966), Francesco Maselli (Fai in fretta ad uccidermi …ho freddo! del 1967) Damiano Damiani (Il rossetto del 1960 e Il sicario del 1961), Elio Petri (L’assassino del ’61 ma in fondo anche Indagine su di un cittadino al di sopra di ogni sospetto del 1970), Vittorio Sindoni (Omicidio per vocazione del ’68), Carlo Vanzina (Mystere del 1983, i due Sotto il vestito niente del 1985 e del 2011) e, ovviamente, Dario Argento. A fianco c’erano registi meno autoriali ma di tutto rispetto, come Lucio Fulci, Duccio Tessari, Enzo G. Castellari, Stelvio Massi, Sergio Martino, Carlo Cozzi, Sergio Sollima che, con budget limitati, facevano una vera concorrenza – anche internazionale – agli omologhi prodotti americani. Poi il genere si era praticamente trasferito in televisione ma da poco, anche grazie al successo de La ragazza nella nebbia, sembra tornato di attualità; gli ultimi titoli, però, (Il testimone invisibile di Stefano Mordini del 2018 e Non sono un assassino di Andrea Zaccariello del 2019, entrambi con protagonista Scamarcio, avevano un po’ deluso). Spiace dire che L’uomo del labirinto non è certo una conferma: Carrisi lo ha tratto da un non dichiarato spin-off del suo romanzo più noto, Il suggeritore, mantenendo – con qualche indispensabile semplificazione – i tratti e le atmosfere del libro ma il risultato è confuso, farraginoso e poco convincente. Mentre La ragazza nella nebbia (pur con i troppi finali che ne allentavano la tensione) si snodava sicuro, qui ogni blocco narrativo è come a sé stante e anche la nazionalità indefinita (siamo in Italia ma quasi tutti hanno nomi stranieri e le divise della polizia sono irriconoscibili) non contribuisce a entrare nel racconto, assai poco aiutato dalla scarsissima voglia di recitare dimostrata da Hoffman che, oltre ad uno stereotipato e spesso ingiustificato sorrisetto, ogni tanto, a soggetto, gesticola per dare (immaginiamo) una patina di italianità al personaggio. Servillo fa Servillo, gli altri, per lo più strillano e “fanno le facce”. La regia, inoltre, composta e puntuale nel film d’esordio, qui si perde ogni tanto in spiazzanti ed incongrui movimenti di macchina.  Ultimo peccato (in parte veniale perché assai diffuso): si capisce quasi subito chi è il villain. I primi incassi, peraltro, non sono male ed è possibile che L’uomo del labirinto sconti la vulgata del secondo film quasi sempre deludente.

 




Downton Abbey

di Michael Engler. Con Hugh BonnevilleJim CarterMichelle DockeryElizabeth McGovern,   Gran Bretagna 2019

  1. La vita del castello di Downton Abbey prosegue tranquilla: Lord Robert Crowley (Bonneville) è ora il capofamiglia, aiutato dalla moglie Cora (McGovern) , dalla figlia Lady Mary Talbot (Dockery)- che però ogni tanto è presa da nostalgia per la più dinamica precedente attività di giornalista – e dal genero Tom Branson, che alla morte della moglie aveva deciso di rimanere con i di lei nobili parenti, per amore della figlia Sybbie (Fifi Hart), mentre l’anziana Contessa Madre Violet (Maggie Smith) continua a battibeccare con la sua fida Dame Isobel (Penelope Wilton) e la servitù, dopo che mr. Carson (Jim Carter) è andato in pensione, è guidata da un nuovo maggiordomo, Thomas Barrow (Robert James-Collier). Una lettera con sigillo reale mette in subbuglio la comunità: re Giorgio V (Simon Jones) e la regina Mary (Geraldine James) verranno in visita per un giorno: tutti sono emozionati per i preparativi, mentre Lady Violet affila gli artigli: con i reali arriverà anche la cugina Maud (Imelda Staunton), dama di compagnia della regina, che non è intenzionata a lasciare le sue proprietà a Robert suo unico erede vivente. Anche il personale è, naturalmente, elettrizzato – in particolare il focoso lealista Moseley (Kevin Doyle) – ma non la “socialista” Daisy (Sophie McShera) che entra in crisi con il fidanzato Andy (Michael Fox), vedendolo condividere l’entusiasmo generale. I reali, come d’abitudine arriveranno con i loro servitori e Thomas va in tilt e blocca tutte le attività in attesa delle disposizioni che i sovrani faranno dare al loro arrivo; Mary, preoccupata, va da Carson e gli chiede di riprendere per quell’occasione il vecchio posto; lui, sollecitato anche dalla moglie, la governante della casa mrs. Hughes (Phyllis Logan), accetta con scorno di Thomas. In paese arriva il capitano Chetwode (Stephen Campbell Moore), che va da Tom e gli comunica che è lì per proteggere i reali e che – conoscendo le sue idee – lo terrà d’occhio. Al castello arriva il maggiordomo di corte Mr. Wilson (David Haig), con la governante mrs. Webb (Richenda Carey) e il capo-valletto (Max Hutchinson), che chiarisce subito al personale del castello che lui e tutti gli altri membri dello staff reale provvederanno a tutte le necessità, a partire dalla cucina che sarà affidata a monsieur Corbett (Philippe Spall), al quale la cuoca mrs. Patmore (Lesley Nicol) e i suoi faranno da aiutanti/sguatteri. Solo Carson – pur ferito – sembra accettare la situazione, mentre gli altri sono inferociti; la Patmore e Daisy sarebbero anche costrette a disdire la ricca ordinazione di provviste che avevano fatto a mr. Bakewell (Mark Addy) ma, di fronte alla commossa felicità del negoziante onorato di servire il re, non trovano il coraggio di farlo e riempiono la dispensa di cibo. Per colmo di sfortuna, si rompe la caldaia ma il baldo idraulico Richard (Max Brown) riesce ad aggiustarla e la sua sicurezza e determinazione conquistano Daisy, tanto che Andy, geloso, sabota il suo lavoro, ottenendo solo di farlo tornare facendosi ancora onore. Lady Mary e Lady Edith (Laura Carmichael) vanno ad invitare la Principessa Reale Mary (Kate Pillips), che vive vicino la castello con il marito, lord Lascelles (Andrew Avill), e i due figli George e Marigold (Oliver e Zac Barker, Eva e Karina Samms), e vedono che nella coppia c’è una forte tensione a causa della rigidità del marito. Quando arrivano i reali – e, con loro, Maud con la cameriera Lucy Smith (Tuppence Middleton), alla quale appare particolarmente affezionata – i festeggiamenti iniziano con una Parata e Tom, armato di pistola, esce da solo dal castello, seguito dalla allarmata Mary, in tempo per fermare Chetwode che sta per sparare al re (aveva capito che il capitano, fingendosi agente dei servizi, cercava la sua complicità per il regicidio). Poco dopo, giardino, la Principessa sta piangendo e lui, non riconoscendola, le racconta dei suoi sentimenti repubblicani e di come abbia deciso di rimanere nel castello per amore della bambina (queste parole convinceranno Mary a fare di tutto per salvare il proprio matrimonio). La servitù, dopo l’iniziale scombussolamento, decide di passare al contrattacco: Anna (Joanne Froggatt) e il marito mr, Bates (Brendan Coyle) chiudono a chiave mr. Wilson, danno un potente sonnifero a Corbett e, con una finta telefonata dirottano, tutti gli altri a Londra; la Patmore potrà così preparare la cena, che sarà servita dai camerieri del palazzo, guidati dalla Hughes che mette subito al suo posto la supponente Webb. La cena è un successo, leggermente offuscato dall’eccessivo entusiasmo dimostrato da Moseley di fronte alle congratulazioni dei reali. Il re, intanto, comunica a Lord Berthie Hexham (Harry Hadden.Paton), marito di Edith, che avrà l’onore di accompagnare il Pricipe di Galles in un lungo viaggio di formazione; lui ne è entusiasta ma la moglie è disperata: è incinta e non vuole affrontare la gravidanza da sola. Violet affronta Maud ma la trova decisissima a lasciare i propri beni a Lucy; Isobel capisce che questa è la figlia segreta della nobildonna e riesce a far sì che in un colloquio chiarificatore le due si riappacifichino (del resto l’anziana Lady ha visto che tra Tom e Lucy è nato un amore e, quindi, le proprietà resterebbero in famiglia). La storia si conclude con un gran ballo dalla baronessa Valeranay (Marina Baibara) e lì ogni storia avrà il suo lieto fine.

 

La produzione inglese Carnival Film, dopo che lo sceneggiatore Julian Fellowes aveva avuto l’Oscar per Gosford Park di Altman aveva deciso di affidargli il compito di creare una seria con la stessa ambientazione; nacque così Downtown Abbey Downtown Abbey, la serie che per sei stagioni, dal 2010 al 2015, ha avuto grandi riconoscimenti e ascolti record rispetto a prodotti analoghi. La scrittura è di grande efficacia: da un lato, esalta l’orgoglio e l’attaccamento degli inglesi per le proprie tradizioni e, dall’altro, è – sia pur alla lontana – parente dell’affettuosa ironia con la quale il più grande umorista inglese, P.G. Wodehouse ha sempre raccontato l’upper class britannica: il pacioso lord Robert non è svampito come l’Emsworth del ciclo di Blandings ma, come lui, tende ad essere eterodiretto, Lady Violet è stretta parente delle zie-virago (Costance, sorella di Emsworth, la terribile zia Agata di Bertie Wooster) dello scrittore, Carson sta tra il flemmatico Beach di Blandings e il volitivo Jeeves e gli intraprendenti borghesi, come Tom o l’idraulico, ricordano il vulcanico Psmith, protagonista di tre tra i sui migliori romanzi. Il merito del successo dalla serie va riconosciuto anche al casting di Jill Trevellick, che ha messo insieme un gruppo di splendidi attori, capeggiati dalla bravissima Maggie Smith (quanto sia decisivo il casting lo dimostrano, da noi, ad esempio la prima serie di Un medico in famiglia e i primi episodi di Montalbano, nei quali i registi, rispettivamente Anna Di Francisca e Alberto Sironi, hanno fatto un grande lavoro di selezione di tutti gli interpreti, mettendo le basi per un duraturo successo). Si può dire la stessa cosa del film: il regista Michael Engler ha una premiata carriera televisiva (ha anche diretto alcuni episodi di Downtown Abbey) e si mette al servizio di una sceneggiatura efficacissima e furba e di un cast perfetto (con l’aggiunta, tra gli altri, della grande Imelda Staunton) e i risultati di botteghino in America e in Inghilterra sono stati stupefacenti. E’, appunto, un prodotto furbo che, ad esempio, riesce a fare di una debolezza strutturale (ogni segmento di racconto deve concludersi alla fine delle due ore) un punto di forza: come nelle favole alla fine tutte le storie  – anche l’amore gay tra Thomas e il capo-valletto di corte – finiscono bene. Perché no? In fondo andiamo al cinema anche per consolarci.

 

 




Maleficent – Signora del Male (Maleficent – Mistress of Evil)

di Joachim Rønning. Con Angelina JolieMichelle PfeifferElle FanningSam RileyImelda Staunton USA 2019

 

Nella Brughiera, di notte un giovane bracconiere (Freddie Wise) che, insieme a due compaesani (Barry Aird e Jermaine Cope), dà la caccia ai piccoli esseri fatati, rapisce un funghetto magico ma si salva a stento dalla rabbia di Malefica (Jolie), che afferra gli altri due con i rami spinosi che le sue arti sanno far crescere. La creaturina, poi, viene consegnata insieme ad un fiore della tomba delle fate al nano-stregone Sicofante (Warwick Davis) Il giorno dopo Aurora, divenuta regina della Brughiera, sta dando udienza a tutte le creature del bosco e, mentre comunica la sua decisione di creare un ponte per superare i conflitti tra loro e gli umani del vicino regno di Ulstead, sopraggiunge il suo amato Filippo (Harris Dickinson), principe di Ulstead che le chiede la mano. Lei, entusiasta, accetta e le fate Giuggiola (Staunton), Fiorina (Lesley Manville) e Verdelia (Juno Temple) si apprestano a predisporre tutto il necessario. Il padre di Filippo, re Giovanni (Robert Lindsay), che condivide le idee di pace del figlio, è felice per il matrimonio e sembra esserlo anche la regina Ingrid (Pfeiffer) che invita a palazzo Aurora e chiede che venga invitata anche Malefica. Quando però Aurora va a dirglielo, la maga è furiosa e non vuole andare poiché non si fida degli esseri umani, che – nonostante il suo cambiamento –  la vedono ancora come una perfida strega. La ragazza e il corvo Fosco (Riley) riescono a convincerla. Intanto Ingrid – che vuole conquistare militarmente la Brughiera e non condivide affatto le idee di convivenza del marito e del figlio – si reca nei sotterranei del castello dove, in gran segreto, la sua ancella Gerda (Jenn Murray) prepara armi letali per gli esseri della Brughiera con le pozioni che Sicofante ricava dalle creature catturate. Durante la cena di fidanzamento, Ingrid sottilmente lancia pesanti accuse a Malefica e, quando questa sta per reagire – fermata però da Aurora – il re Giovanni, ferito alle spalle da un ago di arcolaio come quello che aveva fatto addormentare la fanciulla, cade in un sonno eterno. Ingrid accusa Malefica di esserne la colpevole e la costringe a fuggire e, mentre vola via, Gerda la centra con un proiettile di ferro (elemento letale per le fate), ma viene salvata da Conall (Chiwetel Ejiofor), una creatura, come lei, dotata di grandi ali e corna. Poco dopo si sveglia in una caverna dove vivono centinaia di esseri simili a lei, guidati da Borra (Ed Skrein). Sono i superstiti di una razza che discende dalla Fenice, che è stata nei secoli sterminati dagli umani. Borra – a differenza di Conall che spera in una pacificazione – aspetta il momento giusto per scatenare una guerra agli umani per poter conquistare le terre sovrastanti la grotta, dove vivere far crescere i bambini all’aria aperta ed alla luce e ora spera che i poteri di Malefica, che della Fenice è diretta discendente, rendano meno impari la lotta. Malefica è ancora convalescente ma una notte, insospettita dai rumori, sale nel bosco con Conall e scopre che i soldati di Ulstead hanno portato via tutti i fiori delle tombe delle fate, la cui polvere è letale per gli esseri delal Brughiera. I militi la attaccano ma Conall la salva, venendo colpito mortalmente. Ora lei è infuriata e Borra ha buon gioco nel proclamare la guerra agli umani. Al castello, intanto, il giorno delle nozze Aurora scopre il laboratorio segreto e vi trova l’arcolaio magico; capisce così che il re è stato colpito da Ingrid e queta la fa subito rinchiudere nelle sue stanze. Riesce a fuggire e a rivelare la verità a Filippo ma, quando questi affronta la madre, l’arrivo delle creatura alate costringe la regina e i militari – che stavano per arrestare anche lui – a combattere. Intanto nella chiesa dove si sarebbe dovuto svolgere il matrimonio, le creature della Brughiera sono da Gerda che, suonando l’organo, sparge povere di fiori delle fate ma Fiorina, sacrificando la propria vita, si infila nelle canne dello strumento, ostruendolo. Aurora, chiede perdono a Malefica e, parlandole come una figlia, la convince ad interrompere le ostilità; Ingrid, allora, coglie l’attimo per scagliarle addosso la polvere mortale, riducendola in cenere. Mentre, però, la regina si scaglia contro Aurora, Malefica risorge nella forma di Fenice e la salva. Il combattimento finisce e, con il matrimonio di Aurora e Filippo, gli umani, le fate e gli esseri alati vivranno in pace.

Non è un mistero che i sequel raramente eguagliano il film originale e Maleficent – Signora del Male è una piena conferma di questo assunto. In fondo già la riscrittura della fiaba La bella addormentata nel bosco (che non è stato tra i grandi successi Disney del periodo d’oro) dalla parte della strega cattiva era stato un bell’azzardo ma la divertente e divertita performance della Jolie, un cast solidissimo e le trovate coreografiche del regista/scenografo Robert Stromberg avevano fatto il miracolo: Malefica era una gradevolissima contro-favola femminista (la Bella Addormentata veniva, addirittura, svegliata da Maleficent  perché il bacio di quel baccalà del Principe non sortiva alcun effetto)  che aveva incantato i bambini (e gli scemi come me che, spesso, al cinema si ritrovano allegramente seienni). Il posto di Stromberg è stato preso dal più autorevole (sulla carta almeno) Joachim Ronning, autore dell’unico film norvegese che abbia vinto un Oscar, Kon Tiki. Il risultato però è molto deludente: il racconto fatica a dipanarsi, La Jolie non è più una sorpresa (e anche lei sembra divertirsi molto meno), le scenografie, i costumi e gli effetti speciali appesantiscono ulteriormente l’impianto e la Pfeiffer si limita a rinverdire la cattiva delle fiabe che aveva interpretato in Stardust. Gli incassi sono partiti abbastanza bene ma non è certo una sorpresa.