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Siamo cresciuti nel ghetto e lo raccontiamo senza paure

Marc-Nammour-La-Citta-Nuova

In un momento storico di grave disagio per le periferie delle nostre città, è naturale cercare il confronto con altri paesi europei, come la Francia, che vivono certe situazioni già da anni. Sappiamo che i sobborghi parigini sono molto diversi dai quartieri di Tor Sapienza a Roma e di Corvetto a Milano, ma parlare con il rapper franco-libanese Marc Nammour, definito spesso “la voce della banlieue”, può aiutarci a capire se esiste qualche tratto in comune e, magari, qualche buona pratica da imitare. A settembre è uscito La nausée, terzo album de La Canaille, la band di Montreuil con la quale Marc Nammour suona dal 2007, mescolando i suoi taglienti testi con una musica ibrida tra hip hop e rock. «Il nome del gruppo deriva da un vecchio poema rivoluzionario, scritto nel 1871 da Alexis Bouvier durante La Comune di Parigi, e descrive perfettamente che cosa e chi è La Canaille. In quel contesto il termine indicava le fasce disagiate della popolazione, che soffrivano in silenzio mentre sulle loro spalle si facevano i grossi profitti, e allo stesso tempo era usato anche come insulto da parte delle classi alte nei confronti dei poveri. La radice è quella di “Canis”, che in latino significa “cane”. Dopo quasi un secolo e mezzo la situazione non è cambiata, la battaglia prosegue.»

Il nuovo album, che segue Une goutte de miel dans un litre de plomb (2009) e Par temps de rage (2011), s’intitola La nausée «perché quello era il mio stato d’animo mentre mi accingevo a scrivere queste canzoni». A provocare la nausea di Marc Nammour è stato «l’eccesso di nazionalismo, razzismo, omofobia, miseria e capitalismo. In Francia, come negli altri paesi europei, la situazione per i lavoratori è diventata sempre più dura durante la crisi. È difficile trovare un lavoro o conservarne uno. È difficile mantenere la propria famiglia, pagare l’affitto e le bollette. Quando scrivo i miei testi ho sempre in mente le classi disagiate, perché è lì che sono nato e cresciuto. Ora è veramente un brutto periodo, così ho scelto di parlare apertamente di certi problemi, invece di ignorarli. L’unico filo conduttore delle dodici canzoni del disco è il mio grande sentimento di tristezza».

La fase di registrazione è avvenuta tra novembre 2013 e marzo 2014 al Music Unit Studio, sempre nel sobborgo parigino di Montreuil, dove Nammour ha lavorato insieme a tre produttori – Mathieu Lalande, Jérôme Boivin e Lorenzo Bianchi – e ad alcuni musicisti, amici di lunga data come Antoine Berjeaut (fiati), dj Pone e dj Fab, Serge Teyssot Gay (chitarra), Lazar e Sir Jean (voci). Ma per un rapper, o poeta di strada, la fase cruciale è quella della scrittura dei testi: «Il mio modo di scrivere canzoni è sempre diverso. Non ci sono regole quando si tratta di ispirazione, viene quando vuole, ed è una sensazione strana. A volte scrivo di mattina, altre volte in piena notte, ma quando l’emozione giusta arriva, la riconosco immediatamente e le parole scorrono con naturalezza e facilità». Le parole non sono indipendenti, dice Nammour, che ha «bisogno della musica per scrivere, anche di un breve loop, per entrare in un certo stato d’animo e immaginare situazioni. Mi dà il tempo e suggerisce il flow per rappare le mie poesie. Posso scrivere con o senza rime, per esempio questo album è diviso a metà, ma senza il vincolo delle rime posso essere molto più preciso ed è interessante scoprire come le parole inseguano il beat».

Come quasi tutti i suoi colleghi, Marc ha scoperto il rap da ragazzino, nella Francia degli anni Novanta. «All’epoca il rap pompava da tutti gli impianti stereo del quartiere. Alcuni ragazzi cominciavano a fare breakdance, altri scratchavano sui giradischi, altri dipingevano sui muri e altri ancora, come me, erano interessati alle parole, alla poesia, alle rime. Ho iniziato a scrivere i miei primi testi per divertimento nel 1996, entrando a far parte di alcune piccole band nella zona orientale della Francia. Poi ho deciso progressivamente di farlo più seriamente quando mi sono trasferito a Montreuil nel 2001.»

In effetti, la storia di Marc Nammour non comincia a Montreuil, ma in Libano. «Sono nato nel 1978, durante quella terribile guerra. La mia famiglia è stata costretta a fuggire dal paese per proteggere mia sorella e me, così siamo arrivati in Francia nel 1986, nella piccola città di Saint Claude, vicino alla Svizzera. Come per tutti gli immigrati, per me non è stato facile crescere in una terra straniera. Ricordo che a scuola facevo sempre a botte con gli altri ragazzini, perché mi prendevano in giro e mi chiamavano “straniero”. Poi mi sono abituato al nuovo posto e alla nuova vita. La mia famiglia viveva in uno di quei grandi agglomerati urbani progettati per i lavoratori e da bambino mi sembrava una fortuna, perché bastava uscire di casa per poter giocare con i miei coetanei. Ancora non potevo capire che si trattava di una strada senza uscita, di un ghetto. Ero l’unico ragazzino libanese della zona, la maggior parte delle famiglie veniva dal Nord Africa e dalla Turchia, perciò mi sentivo speciale. Allo stesso tempo ero sempre imbarazzato, perché tutti i telegiornali francesi parlavano del mio paese in termini orribili: guerra, terrorismo, morte, contrasti religiosi ecc. Così sono cresciuto tra due paesi con la strana sensazione di provenire da nessun luogo.»

Per i suoi testi fortemente impegnati, Marc Nammour è spesso definito “la voce delle banlieue”. «Concordo con quest’etichetta, ma lo stesso vale per la maggior parte dei rapper francesi. Siamo cresciuti nel ghetto, lo abbiamo visto con i nostri occhi, e quando raccontiamo quella realtà lo facciamo attraverso la conoscenza diretta. Sappiamo che non è una vita facile. Le periferie francesi stanno diventando progressivamente più brutte con il passare del tempo. Molta violenza, disoccupazione, droga, esclusione sociale, divisioni fra comunità… come in ogni ghetto del mondo. Hai la sensazione che nessuno si curi di te. Ma allo stesso tempo puoi trovare anche grandi esempi di umanità e solidarietà

Molti paesi europei, come Francia, Italia e Regno Unito, hanno visto l’esplosione di partiti nazionalisti e xenofobi. «La povertà è il miglior pane per nutrire i sentimenti di odio e razzismo. Le persone diventano ogni giorno più povere, così si affidano al bieco populismo che individua lo straniero come il pericolo più grave, come il diverso che vuole rubare il loro lavoro o cambiare la loro identità culturale. Tutto questo ha a che fare con la paura. I governi giocano con il fuoco quando accettano di dialogare o scendere a patti con partiti che alimentano l’odio. In Francia, per esempio, il nostro governo socialista ha espulso molti più immigrati di quanto abbia mai fatto qualunque altro partito di destra. L’Europa sta diventando sempre più conservatrice, ha costruito muri verso il resto del mondo per proteggersi da un’invisibile minaccia proveniente dal sud. Ecco perché la mia identità non sarà mai nazionale, ma sociale. La cultura è l’unico strumento per combattere l’ignoranza e la stupidità che portano a certe derive nazionaliste.» Essere cresciuto tra due culture, quella araba e francese, è comunque una grande ricchezza, anche se bisogna far dialogare le proprie radici con la realtà di un paese totalmente diverso. «Non è sempre semplice. Io mi sento come se provenissi da ogni luogo e da nessuno. Per esempio, capisco l’arabo, ma non lo parlo molto bene. Sono un arabo incompleto. Non sono religioso, ma amo il Libano, la musica, il cibo, la cultura, il modo di parlare. È una specie di dono che cerco di condividere con mia figlia. Cerco di andare a trovare la mia famiglia là ogni volta che posso e, quando sono là, avverto qualcosa di magico. Di solito al ritorno in Francia sono molto triste, perché purtroppo in quella parte di mondo non c’è speranza per la pace. Tutti i cugini della mia età sono cresciuti con la guerra e il suo frastuono. I cristiani odiano i musulmani, gli sciiti odiano i sunniti, gli arabi odiano gli israeliani e viceversa. La situazione è estremamente complicata, soprattutto per i giovani che soffocano sotto tutte le tensioni politiche e religiose.»

Recentemente Marc Nammour è stato in Egitto, invitato dall’Istituto di cultura francese di Alessandria, per suonare dal vivo con il suo elettro-sufi Saleh & Miniawy. «Era la prima volta che suonavo in Medioriente e spero che non sia l’ultima, perché mi è piaciuto tantissimo essere là. I miei genitori sono nati in Egitto e per me è stato una sorta di ritorno alle mie origini, un viaggio davvero intenso. Sono passato anche al Cairo, una città pazza: così tanti abitanti, un tale inquinamento, moltissimi poveri. Dopo la rivoluzione il paese mi è sembrato diviso tra progresso e tradizione, si percepisce nell’aria. Ho accettato quell’invito con enorme piacere, dopo aver sentito in rete alcune tracce di Saleh & Miniawy. Non li conoscevo, ma ho capito subito che saremmo andati nella stessa direzione. L’idea di creare uno spettacolo di musica elettronica e poesia, mescolando arabo e francese, mi sembrava estremamente interessante. Infatti, penso che questa collaborazione continuerà e stiamo lavorando su alcune tracce per realizzare un album e portare in tour questo progetto.» Diviso tra Francia e Medioriente, chi è Marc Nammour? «In Francia sono un libanese e in Libano sono un francese. Chi sono io? Sto ancora cercando di scoprirlo… Ma questo mi dà la forza per ricominciare ancora la mia vita. Questa è la ricchezza dei migranti, sono abituati a ricominciare da capo ogni giorno. Sempre. Anche se sembra impossibile o sono stanchi, hanno imparato che ci può essere sempre una soluzione. E anch’io ho imparato che devo contare solo su me stesso per andare avanti.»

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