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San Basilio, ripartiamo dalla domiciliarità contro il degrado delle periferie

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“Non vogliamo negri nè stranieri qui, ma soltanto italiani”. Questa frase è rimbombata forte nelle strade del quartiere San Basilio, a Roma, dove in tanti sono scesi in strada, presidiando l’accesso del civico 15 di via Filottrano, per evitare che una famiglia marocchina prendesse possesso di un appartamento.

Quell’appartamento spetta a quella famiglia, che l’ha ottenuta dopo regolare aggiudicazione, ma nessuno, o quasi, la vuole lì. Eppure quello stabile fino a poco tempo fa era occupato, abusivamente, e poi era stato sgomberato per mettere ordine nelle aggiudicazioni dei vari appartamenti. Si tentava, insomma, un difficile quanto necessario percorso verso la legalità. Ma dopo la protesta la famiglia ha rinunciato alla propria casa e andrà a vivere altrove.

Questa vicenda ci dice una parte di quel malessere, quello che attraversa le periferie delle città, di difficile soluzione. Ci dice, leggendo in controluce quella frase minacciosa urlata dai cittadini del quartiere, che l’integrazione qui è una chimera, che la guerra tra “poveri”, non necessariamente dal punto di vista materiale, registra ogni giorno la sua battaglia.

Ma ci dice anche molto di più. Un elemento, su tutti, emerge prepotentemente: l’isolamento negli appartamenti (un “appartarsi” dai legami di strada e di quartiere) espressione tipica della periferia delle città degli anni ’80-’90, si è trasformata in barricamento. Volontà di chiusura che si mescola a paura del diverso, a rifiuto del confronto con chi viene considerato “pericoloso” perché può “intaccare” l’equilibrio che si è creato non solo all’interno della propria abitazione, ma anche in quella rete parallela, che nasce e si sviluppa tra chi vuole far prevalere la dimensione del branco per difendere il proprio spazio.

Lo stare insieme, dimensione tipica del quartiere, si declina sempre più come collante che non genera solidarietà ma alimenta nemici, spettri, pericoli che seppur esistenti – come quello della mancata sicurezza – vengono spesso amplificati nei vissuti di precarietà e chiusura.

Il barricarsi è sinonimo appunto di una chiusura difensiva. E in questa chiusura si alimentano la violenza, l’intolleranza, il razzismo. Quella famiglia, schernita e offesa per le sue origini, è l’emblema di un bersaglio che viene costruito per sfogare un malessere che ha origini profonde e che esula, molto spesso, dalle condizioni materiali soltanto.

Se scendiamo in profondo per comprendere questo malessere troviamo una discultura delle emozioni dove risiede l’origine di atteggiamenti che considerano la chiusura è l’egoismo come la sola soluzione ai problemi. L’incapacità di riconoscere e gestire i sentimenti di solidarietà, di amicizia, di accoglienza, di curiosità verso il diverso, porta a comportamenti e azioni irrazionalmente difensive, dove si diffonde la cultura di respingimento, di esclusione.

Le periferie non possono essere abbandonate a loro stesse. Bisogna lavorare sul piano dell’educazione, ma occorre necessariamente e in modo prioritario intervenire a livello sociale. Promuovere una nuova idea di quartiere, di relazioni, è fondamentale. Occorre ricostruire rapporti tra le famiglie dove a fare da elemento di unione sia l’aiuto, la solidarietà, non il fare muro contro il nemico di fianco a casa.

Soprattutto bisogna riconsiderare l’idea di domiciliarità, restituendo a essa un’accezione positiva. Domiciliarità significa comunicare, condividere, compartecipare, incontrarsi, conoscersi, scambiare. Implica, per le famiglie e per i servizi, un’apertura all’esterno, una valorizzazione delle differenze, poiché ciascuna famiglia e ciascun servizio è portatore di diverse prospettive ed esperienze.

La domiciliarità così intesa ha bisogno di servizi che osservino e si sforzino di capire che cosa succede dentro e intorno a loro. È compito dei servizi conoscere e riconoscere le risorse plurime presenti nella società civile, nel volontariato, nei nuovi soggetti delle risorse informali, per saperle poi raccordare. Un sistema di welfare-mix fondato sulla collaborazione tra i servizi può alimentare una domiciliarità che non si appiattisca su risposte standardizzate, ma sappia rispettare le differenze all’interno della concezione di un territorio-laboratorio.

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