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Ricerca, innovazione e competitività in Italia

Fuori dai luoghi comuni

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Dire che l’economia italiana non è competitiva perché facciamo poca ricerca e innovazione è ormai diventato un luogo comune. Come dire che non c’è più la mezza stagione.

I luoghi comuni sono pericolosi. Mettono d’accordo tutti facilmente, ma spesso alimentano opinioni fuorvianti, basate su piccoli e grandi equivoci. Nel nostro paese, oggi, prevale l’opinione che i nemici dell’innovazione e della competitività siano la scarsità di risorse pubbliche e l’incertezza.

Le statistiche internazionali sulla ricerca e l’innovazione, praticamente da sempre, raffigurano l’Italia come fanalino di coda dei paesi avanzati (vedi per esempio l’ultimo “Science, Technology and Industry Outlook” dell’OCSE pubblicato a metà novembre). Spendiamo poco in ricerca e la nostra economia impiega poco capitale umano.

Si pensa subito alle risorse pubbliche per la ricerca che scarseggiano sempre di più a causa dell’austerity. A molti brillanti ricercatori italiani che sono costretti ad andarsene all’estero a causa dell’incertezza sul futuro lavorativo. E questo spinge a puntare il dito contro i tagli al bilancio pubblico e la precarizzazione dei rapporti di lavoro. Ma fa dimenticare altre importanti criticità.

Spesso si dimentica che la capacità innovativa e la competitività del tessuto produttivo non sono un semplice by-product dei risultati della ricerca. Il trasferimento della ricerca “dall’accademia all’industria” non è un fatto scontato e indolore. È un cammino a sé, complesso e difficile. Non esiste una ricetta in grado di assicurare il successo di un progetto imprenditoriale innovativo. Anche se nasce da risultati brillanti e di acclarato valore scientifico.

L’innovazione imprenditoriale è un processo che non può prescindere dalla selezione del mercato. Una idea innovativa non si trasformerà mai in un progetto d’impresa e poi, eventualmente, in una azienda di successo, se manca qualcuno che ha la passione e il coraggio di assumerne il rischio imprenditoriale, e se manca chi ha le capacità di assumerne il rischio finanziario.

In poche parole, non nascono imprese innovative e non si genera vera innovazione – quella dirompente, intendo, quella che crea discontinuità – se non c’è nessuno disposto a sobbarcarsi il rischio di fallire, professionalmente e finanziariamente.

La selezione delle start-up innovative è un processo crudele. Nel gergo imprenditoriale, la fase che separa l’avvio della start-up dalla sua stabile affermazione sul mercato viene chiamata “la valle della morte” – la metafora dovrebbe essere sufficiente a rendere l’idea.

Una start-up innovativa è un progetto ad elevatissimo rischio di fallimento. Un rischio molto più elevato di un normale progetto di impresa. Le banche di credito ordinario non finanziano la creazione di imprese innovative. Inutile illudersi sull’efficacia della stampa indiscriminata di moneta. Generalmente se ne occupano fondi specializzati di private equity e di venture capital. E gli investimenti di questi fondi si configurano a tutti gli effetti come vere e proprie operazioni speculative.

Sarà pure paradossale, ma un fondo di venture capital si comporta quasi come un giocatore di azzardo. Gioca in perdita nella speranza che ogni tanto gli capiti una grossa vincita in grado di ripagargli tutto.

La probabilità di successo delle start-up innovative è bassa, e la variabilità dei rendimenti elevata. E ciò anche se la selezione dei progetti è molto rigida e basata sulle qualità e le reali potenzialità dell’iniziativa imprenditoriale. Perciò il venture capitalist riuscirà a “pescare” la gallina dalle uova d’oro solo a fronte di un altissimo numero di progetti falliti o con rendimenti appena sufficienti.

Quella “gallina dalle uova d’oro”, per i benpensanti del politicamente corretto, è solo un guadagno speculativo. In realtà, tuttavia, andrebbe vista come un guadagno per l’intera economia, in termini di innovazione e competitività.

In un certo senso è un po’ il contrario di quello che voleva dire Keynes, quando affermava che “lo sviluppo del capitale di un paese diventa il sottoprodotto delle attività di un casinò da gioco”. Il famoso economista sottolineava questo fatto in modo negativo, come a voler deprecare un aspetto dannoso dell’economia di mercato. Noi potremmo quasi parafrasarlo dicendo che “lo sviluppo dell’innovazione è il co-prodotto delle attività di un casinò da gioco”. Ma per sottolineare questo fatto in modo positivo, e non negativo.

I fondi pubblici per il finanziamento delle start-up innovative, a volte copiati dal modello del venture capital privato, non hanno mai dato risultati soddisfacenti o comunque comparabili con quelli dei fondi privati. Il venture capital di stato non funziona: una ricerca recente del Politecnico di Milano, “Government, Venture Capital and the Growth of European High-Tech Entrepreneurial Firms”, evidenzia questo punto in modo efficace.

Un fondo alimentato con risorse pubbliche, generalmente non gestito con l’obiettivo di fare profitto e che potenzialmente ammette anche la gestione in perdita, ha solo un obbligo formale ma nessun incentivo a selezionare i progetti in funzione del potenziale valore e delle possibilità di riuscita. Anche qui, è inutile farsi illusioni.

Un fondo pubblico per l’innovazione non seleziona le proposte come farebbe un fondo privato. Avrà sempre la tentazione di erogare denaro in favore di una determinata iniziativa perché è stata segnalata dall’amico politico. Molti fondi pubblici, nati per finanziare l’innovazione, finiscono per trasformarsi in strumenti per l’acquisizione di consenso elettorale. E il denaro pubblico finisce per finanziare i progetti degli amici.

Se si tiene a mente tutto questo, la mancanza di innovazione e competitività in Italia assume connotati un po’ diversi. Non è più (solo) un problema di scarse risorse pubbliche e di troppa incertezza. Perché sarà pur vero che la ricerca, quella di base soprattutto, ha bisogno di risorse pubbliche e di stabilità. Ma è altrettanto vero che per arrivare alla competitività si deve passare per l’innovazione. E, come abbiamo visto, l’innovazione ha bisogno di capitali privati, ed è sorella dell’attitudine al rischio e della speculazione, non della certezza e della tranquillità.

L’impalcatura dell’innovazione e della competitività, perciò, si regge su più pilastri. L’investimento pubblico in ricerca è importante, ma è soltanto uno dei pilastri. Non si può fare a meno dell’altro, rappresentato dal crudele processo di selezione delle innovazioni da parte del mercato.

La via maestra per tramutare la ricerca scientifica in innovazioni, poterle valorizzare economicamente e conseguire risultati utili anche in termini di competitività e occupazione è accettare il rischio della selezione sul mercato, e soprattutto dare la possibilità di assumere il rischio imprenditoriale e professionale a chi è disposto a farlo.

E invece, oggi, in Italia, chi è disposto ad assumere un rischio imprenditoriale e professionale non solo non è incentivato, ma è addirittura penalizzato dalle norme fiscali e da quelle sul lavoro. La capacità e la disponibilità ad assumersi il rischio non è vista come una cosa positiva, da valorizzare e da premiare. È vista, anzi, come il tentativo furbesco di aggirare le regole, di evadere il fisco, di bypassare le norme sul lavoro. Di sfruttare il lavoro dipendente.

In questo senso, è emblematica proprio la storia di Steve Jobs e Steve Wozniak, che crearono la loro start-up, la Apple, dentro un garage. Oggi, in Italia, questo sarebbe impossibile perché violerebbe chissà quante norme, gius-lavoristiche, amministrative, fiscali, sanitarie, e chi più ne ha più ne metta.

Mettiamo che sia possibile aumentare quanto vogliamo la spesa pubblica per la ricerca e formare tutti i cervelli che vogliamo nelle nostre università. Anche i migliori al mondo, in possesso di idee brillanti e ottimi risultati di ricerca.

Tuttavia, se la possibilità di fare innovazione imprenditoriale rimarrà preclusa, gran parte di loro potrà solo scegliere tra l’essere mortificato, accontentarsi di impieghi non all’altezza delle proprie aspettative e delle proprie potenzialità, oppure fuggire all’estero per provare a realizzare la propria idea o lavorare a fianco di chi l’ha potuta realizzare.

Quello di cui parliamo non ė soltanto un modo diverso di vedere l’economia. È in discussione il modo stesso di vedere la società e il contributo che gli individui potrebbero dare per migliorarla, se venisse, finalmente, restituita loro la libera iniziativa.

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