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Periferie? Possono diventare la marcia in più dell’Italia

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Mentre in Francia, Belgio o Germania è alalrme terrorismo, qui le dinamiche sono diverse. Le ragioni? «In Italia il rapporto periferie-centro è regolato da una sorta di flusso caotico, mentre nel centro d’Europa sono isole slegata e autonome rispetto al contorno urbano dentro cui si sviluppano fenomeni pericolosi e poco visibili. Da noi invece proprio le periferie, al netto di tutte le criticità e povertà, stanno diventando anche il luogo delle sperimentazioni più innovative che ci potrebbe dare un vantaggio competitivo decisivo». Dialogo con Mario Abis consulente del Piano città presso la Presidenza del Consiglio

Romamurales

Le periferie? «Sono molto più sexy del centro». Ne è convinto Mario Abis, presidente di Makno, docente allo Iulm di Milano e consulente del Piano città presso la Presidenza del Consiglio. Negli scorsi giorni nel capoluogo lombardo presso la Casa dell’Energia e dell’Ambiente Abis ha tenuto un incontro con alcuni giornalisti milanese sotto il titolo “La città che esclude: panorama europeo ed eccezioni italiane” all’interno di un workshop di formazione professionale (“Raccontare le periferie in città- Disagio e luoghi di inclusione). Questi i passaggi i passaggi più significativi.

Perché in Italia le periferie (finora) non sono state la culla del terrorismo?
«Per affrontare su questa domanda occorre comprendere le ragioni che hanno dato vita al terrorismo metropolitano in nazioni come la Francia, il Belgio o anche la Germania. Qual è la caratteristica più evidente di una qualsiasi delle periferie di una città del centro Europa? Senz’altro la separatezza. Si tratta di una precisa scelta prima politica e poi urbanistica che in città come Parigi o Marsiglia ha concepito la periferia come un bordo separato all’interno del quale si sono ricostruiti mondi chiusi e indipendenti. Ogni banlieue ha i suoi servizi, le sue scuole, i suoi ospedali e soprattutto non ci sono (o sono davvero pochi) mezzi pubblici che le colleghino al resto della città. È all’interno di questi microcosmi decontestualizzati, dentro questa separatezza che, per stare al caso della Francia, vivono 6,5 milioni di musulmani urbanizzati. Dentro quei fortino ovviamente qualsiasi progetto di inclusione sociale viene automaticamente marginalizzato e soffocato da una visione urbanistica così definitiva.

In città come Parigi o Marsiglia la periferia è stata concepita come un bordo separato all’interno del quale si sono ricostruiti mondi chiusi e indipendenti. Ogni banlieue ha i suoi servizi, le sue scuole, i suoi ospedali e soprattutto non ci sono (o sono davvero pochi) mezzi pubblici che le colleghino al resto della città

In Italia questo ordine monolitico e monocratico non si è mai realizzato. Da noi è difficile distinguere dove finisce il centro e inizia una periferia. Da noi per dirla con una parola non si capisce dov’è il bordo. Prendiamo Roma, da nord a sud ha ingressi alla città di una bruttezza devastante: sono territori spesso desolati, ma poco progettati e quindi “non verticali” caratterizzati da flussi e non da separatezza. Le periferie italiane in questo senso sono un unicum, hanno problemi gravi, ma diversi da quelli del Centro Europa. Il disordine che le caratterizza in un certo senso è una garanzia sociale. È un disordine protettivo, ma non isolato. Naturalmente è una generalizzazione, ma testimonia un dato comune. Un’altra caratteristica delle nostre periferie è il fatto che siano profondamente diverse una dall’altra, sono difficili da catalogare, ma sono presenti non solo ai margini dei grandi centri urbani, ma anche in città medie e piccole e perfino nei paesi di provincia. Anzi proprio le periferie dei centri più piccoli sono in un certo senso le più pericolose. Quelli in cui, penso per esempio al Veneto, si registrano fatti di sangue efferati anche a livello familiare. Le tipiche villette a schiera di quei panorami e di quelle periferie, se ci pensiamo bene condividono con le banlieue quel senso di isolamento e separatezza che invece non hanno le periferie caotiche delle grandi città italiane».
Abis e il suo gruppo di lavoro nelle prossime settimane presenteranno pubblicamente il Piano periferie. Ecco qualche anticipazione.
«I concetti chiave sono due: da una parte, ed è la conseguenza di quello che abbiamo detto fino ad ora, è il potenziamento delle infrastrutture e delle strutture in modo che il flusso centro-periferia sia intensificato; l’altro ancoraggio è invece il tema del rammendo di piccole strutture rilevanti per i territori: non dobbiamo costruire ex novo in Italia il 60% degli immobili sono vuoti, il grande sforzo sarà quello del ripensamento delle loro funzioni. In questo senso dotare le periferie di grandi parchi ben attrezzati che fungano da polmoni della città, la periferizzazione delle strutture sanitarie (pensiamo al caso di Milano con il polo dell’Humanitas a Rozzano) e il trasferimento di poli artistico/culturali (ancora Milano con la fondazione Prada) sono leve decisive. Aggiungo un dato. Milano, Londra, Seul, alcune città americane costituiscono la prova provata che per chi vuole sperimentare nel sociale e nella creatività urbana le periferie sono il contenitore migliore, il più sexy, perché offrono spazi e possibilità introvabili in altri contesti. Concludo con una postilla. In futuro la vera competizione non si farà a livello di Stati, che versano in una crisi profonda, ma di città. Di grandi città metropolitane, per meglio dire. Citta dai 10 milioni di abitanti in su, per intenderci.

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