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Le radio sfidano Apple: chi vince conquista milioni di smartphone

radioIN USA DUE NUOVI SERVIZI, TRA CUI I-TUNES, CREANO PALINSESTI AUTOMATICI BASATI SU ALGORITMI SU MISURA PER OGNI UTENTE. LE EMITTENTI RISPONDONO CON IL SISTEMA DIGITALE DAB+ CHE ASSICURA PIÙ QUALITÀ DI SUONO E NON BRUCIA BANDA COME LO STREAMING
Non l’hanno uccisa 60 anni di tv e non la ucciderà nemmeno Internet. Ma la “cara vecchia radio” sta affrontando un passaggio difficile. Nel mondo e anche in Italia. Nel mercato nordamericano, che da solo fa il 53% dei circa 34 miliardi di dollari di ricavi pubblicitari globali attratti dal più antico dei media elettronici, da due mesi è stato lanciato i-Tunes Radio e in poche settimane ha raccolto 20 milioni di utenti. non si tratta di utenti unici, va bene, e 9 su dieci continuano a ascoltare radio sui loro iPhone anche attraverso Spotify e Pandora, ma l’arrivo di Apple è un segnale importante e imprime un’accelerazione al mercato in una direzione che mette a rischio il core business stesso della radiofonia. Il lavoro di una stazione radio, come chiamiamo ancora per abitudine le emittenti, consiste nella produzione di contenuti audio in forma di palinsesti. Che poi questi palinsesti viaggino sulle tradizionali onde radio terrestri, onde medie, Fm o nel nuovo standard digitale Dab, oppure via satellite o via Internet non importa, da questo punto di vista. E’ un business che non è stato finora neanche intaccato in modo particolare da Spotify. La piattaforma svedese è infatti un social network a pagamento per distribuire musica. Si paga un canone mensile sui 10 dollari oppure vi si accede gratis ma con la presenza di pubblicità e con un sostanziale limite di file scaricabili. E comunque è solo musica. Anche i-Tunes radio per ora è solo musica, ma non è un social
network. Come un altro servizio Internet americano, Pandora, invia agli utenti non la lista delle canzoni che piacciono ai loro amici su Facebook, come Spotify, ma la musica che piace a ogni singolo utente. Questo almeno secondo i calcoli di un algoritmo che analizza gusti, scelte e abitudini di ognuno. Fin qui, ancora, nulla di nuovo: è una nicchia. Pandora ha il 7% di quota d’ascolto negli Usa. Nei primi sei mesi 2013 ha fatturato 233 milioni di dollari, tutti in pubblicità e con una crescita del 46%, ma ancora perde molti soldi. Ma il punto è che invece Apple ha promesso che non si limiterà alla musica e che presto aggiungerà anche le news, le previsioni del tempo e i talk i programmi di intrattenimento. Che non produrrà ma pescherà dalla Rete un po’ come Google News è fatto con le notizie dei media tradizionali. In questo modo ognuno avrà la sua “stazione radio” personalizzata automaticamente dall’algoritmo di Apple. Il massimo del risparmio di tempo perché il sistema scarta automaticamente ciò che ognuno di noi scarterebbe di persona o piuttosto una specie di Truman Show radiofonico? La partita è appena iniziata e l’esito non è affatto scontato in favore dei nuovi servizi (così come Google News non ha fagocitato i giornali online) ma per il mercato radiofonico è comunque il segnale che è ora di darsi una mossa. Perché è in forte ritardo sulla digitalizzazione, soprattutto in Europa. Negli Usa, che hanno il vantaggio di essere un unico mercato da 300 milioni di utenti la radio non è certo un mercato residuale. Due gruppi si dividono la fetta più grande del mercato. Uno è Clear Channel, una syndacation di distribuzione e gestione della pubblicità che raccoglie 840 stazioni radio Usa e altre 140 tra Australia e Nuova Zelanda, con un fatturato annuo di 1,5 miliardi di dollari. Clear Channel ha creato un nuovo marchio per Internet, si chiama i-Heart Radio e riunisce sul web ben 1500 stazioni radiofoniche, le versioni online di quelle via etere più un numero imprecisato di radio native online, che esistono cioè solo su Internet. Diverso invece l’approccio al mercato di Sirius Xm, che è una vera e propria pay radio. Si riceve unicamente da satellite e si rivolge soprattutto al pubblico di chi ascolta la radio in auto. Sirius ha 25 milioni di abbonati che pagano un canone tra i 14 e i 18 dollari al mese, a seconda della presenza o meno di spot (o un pacchetto annuo da 199 dollari) per un fatturato che nei primi 9 mesi del 2013 ha raggiunto i 2,8 miliardi di dollari. Le dimensioni e i risultati di Sirius Xm dicono che la vera sfida nella radio è la mobilità. Non solo perché la radio si ascolta prevalentemente in macchina (anche in Italia) ma soprattutto perché anche i giovani che ascoltano la radio via Internet lo fanno sempre più spesso in mobilità. E questo significa una cosa ben precisa: che la nuova frontiera del business radiofonico – ed è una frontiera globale, che vale su tutti i mercati, dalle Americhe, all’Europa, all’Asia – è una sola. Ossia come mettere la radio dentro gli smartphone (e in misura minore nelle tavolette). Visto dall’Italia il problema è stavolta uguale al resto d’Europa. «Oggi in Italia la penetrazione degli smart device è al 50%, vuol dire che la metà degli utenti può già potenzialmente ascoltare programmi radio in streaming attraverso le app del telefono. Nel 2017 arriverà al 95%», spiega Andrea Samaja, Consulting, partner di Pwc (Pricewaterhouse Coopers), che ha appena pubblicato le sue previsioni sul mercato globale di Entertainment & Media fino al 2017. Si tratta, per ora, di un utilizzo sporadico. Anche perché lo streaming radio, consuma parecchia banda e quindi gli utenti la usano con parsimonia. La soluzione sarebbe ovviamente quella di trasformare gli smartphone in radio. E possibilmente in radio digitale Dab+ che consentirebbe al settore, che è ancora analogico, di digitalizzarsi più in fretta. Gli operatori cellulari però non ne vogliono sapere perché sarebbe traffico sottratto alle loro reti. Esiste, per esempio, una versione del Samsung Galaxy 4 dotato di ricevitore Dab, ma è solo sul mercato coreano. Senza digitale la partita è problematica. La programmazione delle radio attuali e la loro distribuzione attraverso il caos delle frequenze Fm non sono sufficienti a riconquistare il pubblico giovanile e il rischio è di regalarlo tutto ai nuovi servizi Internet. «Il digitale può fare la differenza. Può ad esempio dare due driver nuovi per questa generazione, ossia il suono di qualità e l’arricchimento dei contenuti da offrire – aggiunge Samaja – ma finora le imprese radiofoniche hanno esitato ad investire sul digitale a causa di una doppia incertezza: sullo standard tecnologico e sui sistemi di misurazione degli ascolti». Se il settore riuscirà a risolvere questi due problemi, la sfida con Internet sarebbe tutt’altro che perduta.
Stefano Carli
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