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La Street Art nelle periferie di Roma e il caos della retorica

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Al Pigneto, passeggiando, può capitare di incrociare lo sguardo extralage di Pier Paolo Pasolini, che fa capolino dalla grondaia di una palazzina a tre piani. Tra le tapparelle azzurre dei palazzi, sotto le piante curate dal pollice verde della signora del secondo piano, dalle archeologie industriali di Ostiense al museo a cielo aperto MURO del Quadraro, Roma sta vestendo, nell’ultimo anno, una vocazione underground inaspettata. La Street Art si sta arrampicando sui muri dei palazzi e sta entrando a gamba tesa nelle nostre vite, insinuando nell’immaginario collettivo la possibilità di un’Urbe diversa, non più esclusivamente rafferma in una scala cromatica che è quella delle rovine, bensì tela di una palètte eccentrica e straordinariamente viva. Lo dicono a gran voce i toni accesi del murales El renacer dell’artista Liqen in Via Maiolati, zona San Basilio, che potremmo eleggere manifesto della rinascita: un rastrello spazza via i detriti di una città in cui l’indifferenza al decoro e il gioco facile al degrado sono ormai morti, lasciando spazio a nuovi germogli. Da Roma Nord a Sud, a sbocciare è l’iniziativa di cittadini privati, enti pubblici, associazioni, progetti o realtà che producono cultura indipendente, organizzano e commissionano opere, all’unisono col nuovo ossigeno dei rinati Comitati di Quartiere. È dei mesi di gennaio e febbraio il progetto Roma Creativa, promosso dall’Assessorato alla Cultura allo scopo di “riqualificare spazi pubblici attraverso progetti di arte pubblica e street art”. Insomma, la capitale non gioca più a fare la bella addormentata e l’arte emerge come un toccasana nell’ottica di una riqualificazione di periferia a basso costo. Il pericolo, però, è di riempire le periferie romane di tante belle macerie colorate.
Perché sì, quel che deriva dall’invasione di Street Art è indubbiamente positivo – non può che essere meraviglioso che su Via dei Pisoni, a Porta Furba, spunti un nudo di Modigliani “a tutta facciata”- e sì, non c’è niente di più incantevole di una rivoluzione colorata che è nata “dal basso”, genuina e potente. Ma è proprio nelle rivoluzioni genuine, quelle che mettono tutti d’accordo, che si rischia lo scivolone nella retorica e nella malìa. La Street Art è oro per gli occhi di chi di arte se ne intende e ne guarda l’attestazione nelle altre capitali europee, ed è ben vista anche dalla suddetta signora del secondo piano, che magari di arte non è appassionata ma è felice di riempirsi gli occhi di colore dopo anni di abitudine al degrado di periferia. Il trend de “Il quartiere Tal dei Tali rinasce con la street art” riempie le prime pagine dei quotidiani da qualche mese, ma fino a che punto è così? Nessun cinismo, attenzione. Solo un po’ di perplessità nei confronti dell’enfasi con cui le istituzioni poco (pochissimo) presenti nei quartieri più disagiati di Roma calano l’asso nella manica, presentando la Street Art come riqualificazione, con un tono di retorica che suona quasi come ‘assoluzione’ da altro. Lungi dal voler cadere nel leitmotiv de “i problemi sò artri”, va detto che, ora, spetterebbe a chi di dovere regalare alla città un contorno adeguato a tante aspettative colorate. Riqualificazione è anche programmazione, pianificazione. Da che mondo è mondo prima del colore serve un disegno, e a Roma manca un progetto che accompagni all’enfasi artistica una realtà progettuale in senso più ampio. Manca che la Street Art non diventi occultare altri problemi, legati ad esempio alla manutenzione degli edifici, di biblioteche, di centri anziani, di impianti sportivi, di parchi, cioè di progettazione, architettura e di investimenti a lungo termine. Manca che mentre il Pigneto (per dirne uno) si riempie di meravigliose opere di Street Art, qualcuno pensi anche a proteggere la lotta di quei cittadini che nel quartiere si sono battuti per la nuova e sacrosanta Isola Pedonale, e poche settimane dopo si sono ritrovati 300 grammi di hashish nascosti tra le aiuole.

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