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La corte (L’hermine)

di Christian Vincent. Con Fabrice LuchiniSidse Babett KnudsenEva LallierMiss MingBerenice Sand Francia 2015

Michel Racine (Luchini), il Presidente della Corte d’Assise di Saint-Omer, benchè influenzato, preside il processo a carico del giovane Martial Beclin (Victor Pontecorvo), accusato di aver ucciso a calci la sua bambina Melissa di 7 mesi; la sua compagna Jessica (Ming) è assistita, come parte civile, da una giovane avvocatessa (Claire Assali). Il difensore dell’imputato, avv. Jourd’hui (Michael Abiteboul), si assenta spesso per telefonare e il lavoro sembra gravare sulle spalle della sua giovane assistente (Jennifer Decker); al momento della formazione della giuria Racine ha un impercettibile soprassalto al nome della dottoressa Ditte Lorensen-Cortelet (Knudesn); lui è noto per la sua imperturbabilità ed è soprannominato “due cifre” perché raramente dà condanne inferiori ai dieci anni. Inizia il processo e l’imputato si rifiuta di rispondere a qualsiasi domanda se non ripetendo: “Non ho ucciso Melissa!”; la sua compagna sul banco dei testimoni è confusa e piena di “non ricordo”: viene fuori che è stata imbottita per mesi di tranquillanti, che l’aiutavano a reggere la tensione del pianto interminabile della piccola che soffriva di coliche (lei da poco ha partorito un altro bambino). Il giudice manda un sms alla giurata chiedendole di incontrarla quella sera. Lei accetta e lui – dopo essere passato da casa, in tempo per incontrare la moglie (Marie Rivière) dalla quale si è appena separato e che non vede l’ora di andarsene – la raggiunge in un bar; la conversazione tra i due chiarisce la situazione: qualche anno prima lui era stato ricoverato in seguito ad un brutto incidente e lei lo aveva curato amorevolmente; lui se ne era innamorato ma quando le aveva scritto per dichiararsi lei non gli aveva risposto. Il giorno dopo l’avvocato Jourd’hui espone la sua tesi: il suo cliente, che aveva confessato il delitto, dopo varie ore d’interrogatorio era stato spinto a dichiarare il falso dalla Polizia. Il tenente Massimet (Raphael Ferret) quando è al banco dei testimoni nega ma Racine lo interroga personalmente e lui cade in varie contraddizioni soprattutto in merito a degli anfibi che sarebbero stati l’arma del delitto e si sono misteriosamente duplicati. Racine e Ditte si vedono ancora e lei non sembra indifferente al suo discretissimo corteggiamento; in un successivo incontro con i giurati lui li esorta a non sentirsi in dovere di scoprire la verità – quella la sanno solo l’imputato e la sua compagna – ma ha dare il verdetto più ragionevolmente giusto. Prima della fine del processo lui ha un nuovo appuntamento nel loro solito bar con Ditte ma trova anche la figlia adolescente (Lallier) di lei che ha marinato la scuola per assistere al processo. La ragazza è curiosa e maliziosa: sembra aver intuito qualcosa ma il messaggio di un amica la distrae subito. Arriva il verdetto: Martial viene assolto e la giovane cancelliera (Chloè Berthier) del tribunale che ne conosceva la fama di durezza, si congratula con Racine per l’umanità con la quale ha condotto il processo. Il giorno dopo inizia un nuovo dibattimento e lui aveva chiesto alla dottoressa di rimanere in aula anche se non fosse stata sorteggiata di nuovo come giurata. Il sorteggio la esclude e lei esce ma, poco dopo, rientra.

La Francia, come l’America, ha una grande tradizione di film processuali; basta pensare ad Andrè Cayatte che in Giustizia è fatta, Siamo tutti assassini e Uno dei tre ha affrontato il tema della Giustizia e della sua endemica contraddittorietà. La corte (ma il titolo originale, L’ermellino, rendeva meglio la distanza dal mondo del giudice) è in realtà una scommessa parzialmente riuscita: quella di inserire un tenera e lievissima commedia amorosa in un contesto processuale con al centro un crimine odioso.. A Venezia Luchini è stato giustissimamente premiato per l’interpretazione e Vicent per la sceneggiatura e non per la regia; in effetti – senza nulla togliere a Sisde Babett Knudsen e agli ottimi comprimari (alcuni dall’Academie) – senza Luchini (forse il più grande attore europeo di questi anni) il delicatissimo equilibrio dell’intreccio sarebbe franato. A lui il regista deve essere doppiamente riconoscente: per questo film e per avergli spianato la strada al suo esordio quale protagonista del suo rohmeriano (e da Rohmer l’attore ha cominciato) La timida.