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Il progetto di Vigne Nuove a Roma, missione incompiuta

L’ho vissuto sulla mia stessa pelle: parlare a chiunque del Piano di Zona n°7 Vigne Nuove a Roma, soprattutto a chi abita nella zona, significa quasi inevitabilmente sentirsi rispondere: Ma qual è? Dici quello brutto con le torri cilindriche? Silenzio.

Beh sì, a malincuore sono costretta ad ammettere che effettivamente si tratta proprio di quello. Ma da lì solitamente mi apro in una digressione architettonica per difendere un progetto che mi sta a cuore ed una delle pochissime realizzazioni a Roma di un modo di fare architettura che, per quanto criticabile e mal riuscito, fa parte del percorso teorico-sperimentale di questa disciplina.

E’ interessante partire proprio dall’immagine che la collettività ha di questo progetto. Al di là del gusto personale di ognuno e del fatto che la maggioranza non sia “addetta ai lavori”, è evidente che, se il pensare comune reputa così negativamente un’architettura, qualcosa non ha funzionato. E questo è avvenuto non necessariamente nella dimensione ristretta dell’alloggio, bensì piuttosto nella totalità dell’intervento. E’ per questo che tratterò più diffusamente dello spazio pubblico che il progetto ha generato.

Ci troviamo nella periferia Nord di Roma, nell’attuale III Municipio, a ridosso delle borgate storiche Tufello e Val Melaina. Il progetto, commissionato dall’ IACP (Istituto Autonomo Case Popolari), è del ben noto Lucio Passarelli dello Studio Passarelli di Roma, a capo di un gruppo di progettazione più vasto.

Erano gli anni ’70, gli anni dei forse più noti e sfortunati progetti di Corviale e Laurentino 38 a Roma, i quali condividevano con Vigne Nuove i finanziamenti straordinari GESCAL del 1969 per la costruzione in via sperimentale di alloggi e servizi collettivi. Vigne Nuove, per quanto sia il meno conosciuto dei tre, fu il primo ad entrare in attuazione: nel 1971 fu redatto un primo progetto a cura dell’ IACP, profondamente modificato dal successivo progetto Passarelli, approvato nel 1972 ed infine realizzato tra il 1973 e il 1979.

Come i suoi cugini romani, anche il progetto di Vigne Nuove sorprende per i suoi numeri:

Superficie complessiva dell’intervento: 77.360 mq (quasi 8 ettari)
Abitanti insediati: 3333 (in 524 alloggi)
Densità territoriale: 416 abitanti per ettaro (piuttosto alta rispetto a tutti gli altri Piani di Zona)

Questo d’altronde non deve stupirci, perché siamo negli anni delle sperimentazioni sulla grande dimensione: costruire edifici giganteschi, nuovi monumenti suburbani, significava da un lato tentare di risanare il tessuto senza regole delle periferie anche grazie all’inserimento di nuovi servizi pubblici, dall’altro garantire con un solo edificio la vivacità sociale di una vera e propria città. La grande dimensione rispondeva però anche all’emergenza della produzione economica in tempi rapidi di un gran numero di alloggi popolari, così come voluto dalla L. 167/1962, che istituì proprio i Piani di Zona. Questo fu reso possibile anche grazie all’adozione di moderni sistemi di prefabbricazione (giunti tuttavia in ritardo in Italia e già superati altrove), che permettevano la produzione in serie dei componenti, un’elevata standardizzazione ed una notevole rapidità del cantiere.

Come purtroppo tanti altri casi analoghi, Vigne Nuove è percepito oggi come quartiere insicuro ed abbandonato dall’amministrazione. Vorrei tuttavia lasciare fuori dal ragionamento le motivazioni, diremmo, politiche e le scelte gestionali per cui ciò è avvenuto. E’ indubbio che un insediamento di queste proporzioni, all’epoca alle ultime propaggini della periferia, destinato alla fascia di popolazione meno abbiente e costruito con evidente economicità di materiali, ponga già in nuce alti rischi di emarginazione; se ci si aggiunge la carenza di controllo, di gestione e di rinnovamento negli anni da parte dell’autorità centrale si ottiene facilmente il quadro attuale.

Tuttavia, poiché su questa scia si aprirebbe una discussione complessa che non è materia di mia competenza, vorrei approfondire l’aspetto prettamente architettonico, cercando di capire se i presupposti del parziale insuccesso attuale di Vigne Nuove fossero già presenti nella sua concezione.

Sulla carta, il disegno planivolumetrico del progetto si fonda sulla compenetrazione di tre sistemi:

la quota zero, in cui sono presenti le aree verdi interne (in verde) ed in cui sono intelligentemente “relegati” mobilità carrabile e parcheggi;
la quota sopraelevata, totalmente pedonale, dei piani porticati sotto gli edifici e dell’asse rettilineo strutturante Est-Ovest, su cui si attestano ordinatamente a pettine le attrezzature collettive a due piani (in arancio);
la linea spezzata degli edifici residenziali a 7-8 piani (in grigio), posizionati ai margini del lotto per lasciare ampio spazio libero al suo interno.

Il tutto è realizzato con una grande unità visiva e materica, attraverso l’uso del calcestruzzo a vista, come si legge nella Relazione Generale:

«Si è ritenuto che l’insieme volutamente omogeneo e lineare degli edifici avesse una validità espressiva, contenuta nello stesso segno unitario dei volumi.».

L’intervento doveva quindi porsi come un segno forte, una quinta a chiusura del costruito esistente, divenendo contemporaneamente un polo visuale e d’aggregazione sociale (fig.4):

«La disposizione dei volumi principali favorisce aperture visuali nella doppia direzione nord-sud, collegando contestualmente tra loro le corrispondenti zone limitrofe e rendendole nel contempo partecipi della più attrezzata vita comunitaria nel complesso IACP [in azzurro in fig.3, ndr]. Tale vita comunitaria è prevista lungo il filo conduttore di alcuni principali servizi collettivi […]».

In merito proprio ai servizi collettivi, era stata prevista una dotazione significativa ed organizzata in modo chiaro e lineare: centro commerciale, centro civico con A.S.L., asilo nido, scuola materna ed elementare, servizi sociali e consorziali, una palestra comunale con area sportiva all’aperto.

A questo punto, la domanda che viene spontaneo porsi è: cosa non ha funzionato quando l’interessante progetto è stato tradotto in concreto?

Le difficoltà principali sono state e sono ancora legate al rapporto degli edifici con il lotto, caratterizzato morfologicamente da forti dislivelli sia Nord-Sud sia soprattutto Est-Ovest (25 m.). Il costruito, infatti, è stato fin dal principio tenuto ben separato dal terreno, allo scopo di «[…] evitare forti rimodellamenti del terreno; evitare problemi di discontinuità nell’attacco a terra dei fabbricati; consentire una soluzione non costosa per gli accessi ai box e la fruizione delle attrezzature […]».

Al giorno d’oggi si tende a ragionare con il genius loci, a sfruttare il sito come un materiale o come una guida della forma architettonica, in modo che ogni progetto possa essere costruito lì e non altrove. Al contrario, come era diffuso all’epoca, a Vigne Nuove ha governato una progettazione in planimetria che ha preferito limitare le relazioni con il terreno. Ma in un lotto così in pendenza degli aggiustamenti o, più spesso, delle forzature nell’articolazione degli spazi sono stati inevitabili; è così che, quella che sulla carta era una linea dritta, nella pratica si è trasformata in una linea inclinata, un percorso in piano si è trasformato in una rampa o si è dovuto troncare.

Questo è avvenuto in primo luogo lungo l’asse pedonale strutturale, la spina su cui si concentrano tutti i servizi. Fintanto che il percorso pedonale si mantiene in piano, la linearità e l’ordine sono ben leggibili, come ad esempio nel centro commerciale (fig.5 a sinistra), ma quando il percorso deve superare la grande differenza di quota, esso è costretto a spezzarsi e ad avvolgersi su sé stesso in modo poco visibile e chiaro (fig.5 a destra). Ancora più difficoltosa è la lettura della direzionalità quando l’asse si infila sotto gli edifici residenziali, generando situazioni caotiche, con pilastri in mezzo al passaggio e varchi che portano ad abbandonarlo erroneamente (fig.6 in alto). Significativo l’episodio della cavea coperta che, occupata al centro da un vano scala, si è trasformata da luogo di ritrovo ad angusto luogo di degrado.

La diretta conseguenza di questa distorsione è stata generare passaggi bui e labirintici, a loro volta premessa di insicurezza, vandalismo ed incuria. E quando la popolazione comincia ad evitare certi percorsi, è evidente che, oltre ad accelerarsi il processo di degrado, i servizi da essi distribuiti vengono privati del loro elemento portante.

La situazione attuale degli edifici pubblici non è, infatti, molto confortante. Le attività del centro commerciale hanno sempre avuto difficoltà a decollare e sono quasi tutte chiuse (anche perché poco visibili dall’esterno del lotto), per cui lo spazio è poco frequentato, malridotto ed i vani interni sono stati occupati da abitazioni, che spesso si sono appropriate dei percorsi di distribuzione (fig.7). Anche gli altri servizi originari hanno cambiato destinazione d’uso nel tempo e vengono utilizzati a malapena: la scuola materna e l’asilo nido sono diventati un centro anziani ed un’unità riabilitativa infantile; i servizi sociali e consorziali sono anch’essi abitati ed ospitano la Comunità di Sant’Egidio (attualmente chiusa). Unici servizi che richiamano quotidianamente un gran numero di abitanti del quartiere, anche giovani, sono il centro civico (con la A.S.L., la farmacia, un bar) ed il centro sportivo con palestra, per quanto necessitino anch’essi di un’adeguata manutenzione .

L’altra idea base del progetto che ha incontrato grosse difficoltà nella sua traduzione reale, è stata il rapporto con l’esistente. Indubbio attrattore visuale per la sua imponenza e per le sue peculiarità architettoniche, Vigne Nuove non si è trasformato anche in quell’attrattore sociale che si era auspicato. E questo non solo per lo scarso successo delle sue attrezzature, ma soprattutto perché non si è realizzata quella connessione col resto del costruito che i progettisti si erano immaginati.

Dal lato Sud, l’area non si è mai collegata al quartiere di Tufello, a causa del mancato completamento nel lotto confinante di una porzione del P.d.Z. n° 7 definita “ter”, che ha lasciato così uno spazio abbandonato tra i due tessuti (fig.9 in alto). Dal lato Nord, invece, ancora una volta non aver tenuto conto del dislivello del terreno ha reso inaccessibile dalla strada il parco interno, chiuso da un muro, ad una quota ribassata e quasi privo nel suo disegno di attraversamenti trasversali Nord-Sud (fig.9 in basso). Questa inclusione fisica non ha fatto altro che rafforzare il senso di isolamento dell’area, completando il quadro delle cause che, a livello progettuale, hanno compromesso il buon esito della visione originale.

In conclusione, quindi, Vigne Nuove è stato sicuramente un progetto innovativo e coraggioso, perfettamente inserito nelle sperimentazioni e nelle teorie architettoniche del suo tempo, che tuttavia non è riuscito come si era pensato, mostrando in breve i suoi difetti sia intrinseci che gestionali. Ho cercato di indossare i panni dell’architetto prima e del fruitore dopo, con un duplice obiettivo: raccontare agli architetti di come Vigne Nuove non sia solo il progetto innovatore che abbiamo studiato sui libri di architettura; raccontare a tutti i non architetti di come Vigne Nuove non sia solo “quello brutto con le torri cilindriche“.

In ogni caso, sperando in una futura rigenerazione dell’area, sarà importante ragionare proprio sui punti di forza e partire da questi per rilanciare il sistema dei servizi e degli spazi pubblici e da lì tutta l’area. Nel far ciò si dovrebbe cercare di dare risposta ai vari segnali di esigenze reali e di riassorbire l’area nel contesto urbano, coinvolgendo soprattutto i giovani.

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