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Il buco nero delle periferie

In 40 anni dieci piani nazionali (fallimentari): almeno tre miliardi spesi a vuoto.
Da Catania a Milano, viaggio nelle periferie italiane
È dagli anni ’70 che si prova ad aggredire il degrado urbano, di recuperare le periferie, di strutturare modelli di rigenerazione urbana. Con ingenti risorse spese. E scarsi risultati ottenuti. Dal 1978, con il lancio dei primi piani di recupero urbano fino all’ultimo piano di lotta al degrado sociale e culturale delle periferie, il cui bando sta per uscire in «Gazzetta», abbiamo visto almeno dieci piani nazionali che avevano come obiettivo la riqualificazione urbana. Eppure le periferie continuano a esistere, anzi crescono con una velocità che supera ogni capacità di gestione, programmazione e spesa. A Milano come a Roma, a Palermo come a Padova, la decrescita economica e il flusso migratorio non fa che acutizzare un problema che quasi 40 anni di tentativi non hanno risolto.

Il primo tentativo, fatto con i piani di recupero lanciati nel 1978 (con la legge 457 sull’edilizia residenziale pubblica) di iniziativa pubblica o privata, ha subito evidenziato due limiti che si è cercato di superare nei successivi strumenti complessi: cioè la impossibilità di fare varianti al piano regolatore e la distinzione netta tra operatore pubblico e privato.

I programmi integrati di intervento – previsti dalla legge 179/2002 per «riqualificare il tessuto urbanistico, edilizio e ambientale» – rappresentano il primo vero passo avanti per l’intervento su scala urbana, perché aprono all’integrazione di diverse funzioni, residenziali e non residenziali, all’interno del progetto e anche all’integrazione di risorse pubbliche e private. Ma si infrangono nelle aule dei tribunali amministrativi per via delle frequenti impugnazioni (almeno i programmi più importanti).

E saltiamo subito ai Pru, i Piani di recupero urbano del 1993 (introdotti dal decreto legge 398). È il vero inizio della stagione dei cosiddetti programmi complessi, con la regia saldamente incardinata nel Cer, il Comitato per l’edilizia residenziale dell’allora ministero dei Lavori pubblici. Furono avviati con un grande bando nazionale predisposto nel 1994. E sancivano il “matrimonio” tra pubblico e privato, con il concorso di risorse miste da far convergere su un vasto progetto. Ma erano anche molto complicati e – soprattutto, come si è capito ben presto – richiedevano una forte mano pubblica, anche a livello territoriale e locale. Si è cercato di semplificare le procedure attraverso il ricorso alla conferenza di servizi e all’accordo di programma (strumenti nel frattempo creati nel 1990) per superare le difformità rispetto ai piani regolatori comunali.

La Finanziaria del 1997 regala i Contratti di quartiere, che hanno visto anche una seconda edizione nel 2000. Ma rappresentano un passo indietro rispetto ai piani precedenti perché un possono introdurre varianti urbanistiche e il finanziamento è vincolato solo a certe tipologie di intervento. Una novità interessante è l’apertura alle associazioni no profit sul territorio, attraverso gli enti locali, per riqualificare il territorio. I contratti di quartiere fanno subito emergere dei limiti nell’attuazione, che si manifesteranno anche nei successivi piani. Hanno coinvolto in tutto su 195 comuni per quasi 1,3 miliardi di fondi pubblici stanziati, di cui 824 statali. Ebbene, in base all’ultimo aggiornamento disponibile (maggio 2014) sono stati erogati quasi 487,3 milioni. La corte dei conti ne ha stigmatizzato la gestione «insoddisfacente, non solo perché esso è stato tardivo, ma anche perché parziale, in conseguenza di una carente trasmissione di dati al Ministero delle infrastrutture in particolare da parte di alcune Regioni». Inoltre i magistrati lamentano un «assenza di un monitoraggio concomitante con la gestione ha precluso possibili interventi correttivi, sostitutivi, di revoca o semplicemente di sollecito dell’esecuzione delle opere». Conclusione? «La conoscenza parziale dei risultati conseguiti, solo in parte motivata dal mancato completamento degli interventi, è risultata non adeguata a consentire una valutazione dell’efficacia ed efficienza della gestione».

Nuovo tentativo con i Prusst (Programmi di riqualificazione urbana e sviluppo sostenibile sul territorio), avviati nel 1998 con il decreto del ministero dei Lavori pubblici n.1169. Il target si alza perché il piano punta a realizzare infrastrutture, riqualificare ampie aree industriali, vaste aree periferiche ma anche del centro città. Nella sua filosofia, è un primo vero “piano città” di ampio respiro. Ma anche i Prusst danno lavoro ai magistrati della Corte dei Conti. Nel 2006 arriva la “pagella”: anche in questo caso, i risultati sono scarsi ed emergono limiti evidenti. «I risultati ottenuti dagli organismi proponenti non possono, quindi, ritenersi soddisfacenti, nonostante la massiccia partecipazione e il diffuso interesse all’utilizzo di questo strumento», si legge nella valutazione della Corte dei Conti. Complessivamente i Prusst prevedevano uno stanziamento di 339,5 milioni ma, dall’analisi condotta su un campione monitorato dalla Corte dei Conti (che vale 44,8 milioni) emerge uan spesa di solo il 22% rispetto al totale finanziato.
Dall’Europa, nel 1994 arrivano i piani Urban (con una seconda edizione nel 2000), dedicati ai contesti fortemente degradati nelle strutture e con grave disagio sociale. Ne hanno beneficiato molte città del Mezzogiorno, che hanno passato una selezione dei un bando europeo.

Visti in prospettiva, tutti questi piani rivelano un grosso limite: l’estrema lunghezza dei tempi attuativi. Cui corrisponde l’estrema incertezza dei finanziamenti. Un cocktail che ha un unico effetto certo: quello di far evaporare i soggetti privati interessati al finanziamento e alla gestione. A questo si aggiunge la sperimentata inadeguatezza della macchina amministrativa. Del tutto trascurata, poi, la fase del monitoraggio.

Dopo questi grandi piani c’è una parabola discendente, anche perché nel frattempo il vento cambia. Dal 2008 la crisi finanziaria comincia in Italia a far sentire i suoi effetti sull’economia reale. I valori immobiliari cominciano a scendere e così pure le risorse statali e regionali da investire sul territorio. I privati invece si concentrano – comprensibilmente – su progetti di elevato valore immobiliare, localizzati non certo nelle periferie degradate.

La “legge obiettivo delle città” che il governo Berlusconi ha annunciato nel 2004 non vedrà mai la luce. Nel giugno del 1998 nasce un piano per il social housing che resta inattuato in larga parte. Anche il successivo piano proposto dall’ex ministro Maurizio Lupi resta ancora inattuato nella sua parte più incisiva: la riqualificazione del patrimonio di edilizia residenziale per quasi 500 milioni di euro.

L’ultimo piano dedicato alle città, è quello omonimo lanciato dal governo Monti nel 2012. Grandi aspettative alimentate dal governo che ha parlato di 4,4 miliardi di risorse per riqualificare le città. Piovono una montagna di candidature (457 proposte). Ma la montagna partorisce il topolino: il tutto si riduce – dopo una incredibile dilazione di tempi (in larga parte dovuta a un inedito percorso attuativo per i progetti) – a una manciata di opere pubbliche senza alcun filo conduttore.

Oggi nuovo punto a capo. Si torna a parlare di periferie. I requisiti molto ampi dei progetti lasciano prevedere un’altra pioggia di progetti provenienti da città di ogni ordine e grado. Il tutto per conquistare una somma compresa tra 500mila euro e 2 milioni.

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