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Europa, chi sei?

Appartenenze, valori, identità

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Europa, non è una ‘espressione geografica’. Europa “ è ”: storie, culture, popoli, appartenenze; al plurale e plurali.
Neppure è “una unità naturale: antropologicamente è un miscuglio di razze, e l’uomo europeo rappresenta una unità piuttosto sociale che razziale. L’Europa ha avuto inizio: essa è il risultato di una storia della libertà (oltre che della necessità) di uomini concreti. Quella dell’Europa è dunque una vicenda aperta soprattutto per la sua fisionomia storico-politica. Questa mutevolezza ha finito con l’incidere sulla sua identità, sulla sua coscienza. Essa si è identificata essenzialmente come modo di essere, come forma di civiltà. Una sorta di abito civile, giuridico, culturale, estetico, spirituale. L’Europa si è pensata come individualità storico-morale”( R. Prodi, “Postfazione”, in: “Europa laica e puzzle religioso”, 2005).
Il Preambolo del Trattato sull’Unione europea afferma: (gli Stati membri) “ ispirandosi alle eredità culturali, religiose ed umanistiche dell’Europa” (…).
Diario europeo condivide la sobrietà con cui il “Preambolo” si esprime. Su queste basi, le generazioni di europei, ogni giorno, costruiscono (possono e devono) l’edificio della democrazia e dello Stato di diritto.
Ispirarsi a delle “eredita” culturali, molteplici e diversificate di per se stesse, comporta il rispetto di esse e il riconoscimento di ciascuna di essa, come “eredita” per l’oggi, con la quale misurarsi, con libertà e creatività. Essere soggetto di cultura è una componente della dignità umana. Anche sostituirla, superarla con un’altra forma di cultura è un riconoscerla. Assumendosi il carico e l’incarico di trovare il modo di tenere insieme delle alterità. Per includere e non escludere. Chiamiamo “cultura umana” ogni configurazione, sociale e storica di inclusione. A questa visione, Europa appartiene. A questa Europa noi apparteniamo. Questa è l’Europa che vogliamo.
Le religioni rientrano, in parte, nell’ambito delle culture; in parte ne sono distinte, come sentimenti e fedi specifiche; e che, ugualmente, possono dare luogo, a loro volta – mescolandosi ad altre espressioni della ricerca intellettuale degli uomini e delle donne nel corso della storia: le arti, la letteratura, la poesia, le filosofie, le scienze, le tecnologie – a cultura e a culture. Le religioni costituiscono, dunque, una realtà composita: culturale e trans-culturale. Storicamente, in Europa, costituiscono, già nel loro specifico ambito, una realtà molteplice e plurale. Nelle storia dell’Europa sono state anche causa e strumento di conflitti e guerre. Ispirarsi, nella libertà, alle eredità religiose, molteplici e diversificate, comporta, quindi, il rispetto di esse e della loro molteplicità; considerarle “eredità” per l’oggi sostanzia concretamente questo rispetto e implica la libertà di assumerle come eredità o non assumerle affatto.
L’umanesimo è innanzitutto un sentimento di empatia e simpatia per l’umanità: considerandone i limiti, le speranze, le aspirazioni, i sogni, le realizzazioni, le sconfitte e le tragedie.
La tradizione umanistica si basa – prima di ogni elaborazione filosofica e letteraria, anche questa preziosa eredità – su questo difficile equilibrio: essere contemporaneamente consapevoli della grandezza dell’uomo e dei suoi limiti e confini.
Sia la grandezza sia il limite appartengono alle eredita umanistiche dell’Europa. Le realizzazioni dell’una e dell’altro insieme fanno l’umanesimo europeo. L’assolutizzazione di una sola componente – grandezza o limite – apre la strada o ai fondamentalismi o alle banalizzazioni. Anche questi sono componenti della storia di Europa. Nell’Europa che vogliamo, noi rigettiamo ambedue queste derive.
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Nel dibattito quotidiano – veloce, troppo veloce, sovrabbondante, sbrigativo, appassionato e approssimato (e a volte distorto e anche spiacevole) – “l’ispirazione” affermata nel Trattato viene sintetizzato con il termine: “valori”. Sintetizzato e anche ghettizzato in questa parolina magica, il dibattito – che vorrebbe essere includente, forse proprio per questa sua tendenza all’unico e al totale – rischia, invece, di essere respingente. Come un pugno nello stomaco o una mano che tappa la bocca e spegne il pensiero.
“Una società dotata di un retroterra culturale empirico-pragmatico, molto sensibile alla transazione commerciale e in genere alle negoziazioni, al bargaining, come metodo per raggiungere, attraverso interstiziali aggiustamenti, decisioni politiche e sociali importanti, ma anche quelle non decisive, come l’apertura di un’autostrada o lo smaltimento della spazzatura, sembra da qualche tempo ossessionata dai ‘Valori’. ‘Valori’ è una parola equivoca. Andrebbe accuratamente evitata oppure decifrata ed espressa nelle sue valenze ogniqualvolta venga usata. La tendenza ad eternizzare i propri valori contro valori degli altri appare invincibile. Di fatto altro non è che la proiezione di sé sugli altri e contro gli altri: per difesa e per offesa (F. Ferrarotti, La religione dissacrante, EDB, 2013).
Consapevole di questo rischio, noi vogliamo esplicitare subito che “valore”, per noi, è sinonimo di “ consapevolezze” e “responsabilità”: con-sapevolezze e abilità a rispondere. E decliniamo, senza infingimenti e senza nasconderci, questo approccio di pensiero e di vita, nell’ appartenenza a Europa.
Queste tre parole (consapevolezza, responsabilità, appartenenza) ci ricordano con più immediatezza la presenza e l’esistenza dell’altro da me : di valori e di eredità molteplici. Quindi: altre consapevolezze, altre responsabilità, altre appartenenze. Queste tre parole obbligano differenti mondi ad una consapevole limitatezza/relatività dei rispettivi valori e appartenenze. Questa è Europa. Questa è, in nuce, la identità europea.
Questo approccio non è una resa (tanto meno una sottomissione ) ad ogni vento e/o ad ogni avventura (culturale, di pensiero, di religione e di fedi, di ideologia). E’ , al contrario, un terreno – il solo terreno universalmente generatore di frutti – per coltivare impegno e memoria, progetto e eredità. Nell’unica modalità possibile e accettabile, nel modo umano.
Cosa significa, dunque, essere europei? Europa può rifarsi ad una sua specifica identità culturale? La ‘Storia’ ci ha consegnato un processo multiforme: trasformazioni e innovazioni, fratture e snodi critici. Anche il concetto di “modernità” rinvia allo sviluppo di “modernità multiple”. La sintesi di “Europa come luogo” ed “Europa come contenuto” ha suggerito agli storici e agli antropologi un approccio alla identità europea come “secondarietà culturale” (Rémi Brague), che spinge e sostanzia una identità impastata di “unità attraverso la diversità”. Dunque: cosa abbiamo ereditato? Chi abbiamo ereditato? Abbiamo ereditato la complessità. Abbiamo avuto in affidamento la molteplicità. Su queste basi, abbiamo radicato la libertà e le libertà, specchio delle nostre alterità.
“Diario europeo” esprime, pertanto, il convincimento che “la concezione dell’identità culturale intesa come campo delle differenze, rivela un alto grado di validità per il mondo moderno” (Clifford Geertz) e costituisce il cuore del carattere europeo.
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Questa profondità della visione ci impegna alla difesa di questa eredità ed alla sua promozione; nella consapevolezza che questa duplice azione esige – come precondizione- lo sviluppo e l’approfondimento della visione stessa e dei suoi principi, fino a farne un vero e proprio “programma culturale europeo permanente”, per conseguire:
– una prospettiva più lucida del processo/percorso di integrazione europea;
– una promozione strutturata dei principi sui quali è basata lo stare insieme dei Paesi e dei popoli d’Europa: come vero e proprio “programma culturale” e un modo nuovo di “raccontare l’Europa” unita;
– la messa in comune degli strumenti della sicurezza e della promozione dei principi che sono a base dell’ethos comune europeo.
Non per chiudersi, ma per restare e divenire, sempre di più, consapevoli: aperti, riconoscibili, affidabili. Europa, dunque, come storia e processo di una consapevole relatività culturale ed etica: la responsabile consapevolezza dell’autonomia dell’umano e della autosufficienza conoscitiva e regolativa della realtà dell’uomo e del mondo. Dunque: Laicità e Democrazia; il primato della Legge; il Limite come scelta consapevole.
Assumiamo, pertanto, una duplice “lezione”, che ci impegna ad una Società aperta e all’Unità nella diversità:
– il monito del grande europeo, Immanuel Kant (1795) : “la finitezza geografica della nostra terra impone ai suoi abitanti un principio di ospitalità universale, che riconosca all’altro il diritto di non essere trattato come nemico”.
– la lezione del grande maestro di storia europea, Jacques Le Goff (1991): “Ma quante Europe esistono? E vero che la storia ne ha abbozzate molte . E’ alla luce della storia che occorre esaminare le differenze che ne risultano, le opposizioni, le frontiere, le discordanze e procedere con prudenza e per tappe alla realizzazione della unita europea vera, profonda . Ciò che viene dimostrato dalla storia dell’Europa e che i peggiori nemici dell’Europa sono i nazionalismi. Ebbene, quà e là ancora si trovano febbri nazionalistiche e una volta di più, se queste non cedono il posto a sentimenti nazionali e a un amor di patria compatibili con una costruzione europea, una volta di più Europa sarà campo di affrontamenti nazionali e una preda per le avventure politiche e la violenza. Europei, aprite i vostri libri di storia e non ripetete gli errori del passato.”
Il “Trattato sull’Unione europea” delinea, con la sobrietà e la freddezza tipiche di un testo giuridico, i caratteri fondamentale della “Integrazione europea”, attraverso le norme che riguardano: l’adesione all’Unione, la permanenza nell’Unione e l’uscita dall’Unione:
• L’adesione all’Unione , con l’articolo 49, delinea la qualità della membership nei termini di una Intesa tra le diverse Istituzioni , europee e nazionali, impressionante per la sua coralità (ed anche troppo poco noto o dimenticato). Si evince che diventare membro dell’Unione non è un atto burocratico; implica l’assunzione di “valori” (non generici ma precisi: quelli enumerati nell’art.2), insieme all’impegno su due elementi esplicitamente richiamati: “rispetto” e “promozione” di quegli stessi valori. Tutte le Istituzioni europee sono coinvolte nel processo di adesione di un nuovo Stato membro e le Istituzioni nazionali di ciascuno Stato membro sono corresponsabili, e anche il popolo dello Stato richiedente attraverso il Parlamento nazionale. Interviene un ‘accordo’ esplicito tra lo Stato richiedente e gli altri Stati membri, i quali si pronunciano uno per uno, attraverso la Istituzione nazionale che la sua Costituzione indica ( parlamento o governo).
• La permanenza nell’Unione si basa sui seguenti fondamenti : “L’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini” (articolo 2).
• L’uscita dall’Unione, con l’articolo 50, è prevista con un linguaggio che denota una concezione che l’ Unione Europea ha di se stessa, improntata a: Scelta, Opportunità, Libertà; non una prigione, ma neppure una mera, altalenante, consorteria di tipo commerciale.
La intensa liturgia laica, prevista dal Trattato per l’adesione all’Unione e i principi che fondano la permanenza nell’Unione, non rappresentano, e non sono, il prodotto di una fredda secolarizzazione di fondamenti valoriali provenienti o presi in prestito da altri mondi, bensì il risultato di dinamiche ereditarie culturali, umanistiche e religiose propriamente europee: anche intrise di lotte, conflitti, sangue e conquiste.
Forse quel sobrio, e persino arido, affresco risulta poco noto, a causa della sua scarsa promozione e conoscenza nelle Società nazionali, nei Sistemi educativi dei Paesi membri e nel Racconto che oggi Europa fa di se stessa.
“Noi pensiamo che il problema dell’Europa non sia né economico né politico ma di storytelling. Non abbiamo una buona storia da raccontare e quindi ci incartiamo su problemi politici, economici, burocratici. E invece l’Europa nasce con una storia fantastica: diverse comunità che si sono macellate per secoli decidono, in tempi brevissimi, di diventare un unico organismo, facendo una scelta per la pace straordinaria, che coinvolge i confini, la moneta, la convivenza. E’ una storia che ha funzionato molto bene per la fondazione. (…) Eppure questa storia dall’imprinting così forte è finita nel disamore…”(Alessandro Baricco, scrittore: fondatore e preside della “Scuola Holden” di Torino). E’ urgente invertire questa rotta. Questa è – deve essere – la emergenza più alta di questa Unione.
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Tutto è ancora possibile. Dal 9 maggio 1950 (discorso di Robert Schuman) al 2017, il percorso unitario ha compiuto soltanto sessantasette anni di vita; dal 9 novembre 1989 / 3 ottobre 1990 (caduta del muro di Berlino& riunificazione della Germania), il percorso unitario ha compiuto soltanto 28/27 anni di storia. Tra contraddizioni nuove e più antichi nodi irrisolti, il tempo del processo unitario, fino ad ora compiuto, non è, storicamente, un tempo enorme. Ciò che è nuovo sta nella portata del cambiamento dei contesti globali e della loro velocità, nel quale il processo unitario ora deve evolvere. Qui sta la sfida. Inedita e per molti versi drammatica.
All’inizio del progetto di “Costituzione per l’Europa”, i costituenti europei – il 20 giugno del 2003 – avevano depositato queste parole di Tucidide: “La nostra Costituzione si chiama democrazia perché il potere non e nelle mani di pochi, ma dei più”.
I frutti di queste immarcescibili radici non sono ancora tutti disponibili.
La responsabilità della generazione, contemporanea agli albori della costruzione europea, è stata grande ed è ancora rilevante; pari alla certezza che il cammino compiuto è troppo limitato e che ora sta vivendo una stasi pericolosa. Dobbiamo affidare questa duplice consapevolezza non alla evocazione della solidarietà, bensì al dovere della convergenza: tra gli Stati, tra i Sistemi Paese, tra i Popoli d’Europa.
Diversi e uniti. Per scelta. Come azione e non come destino. Con responsabilità verso le rispettive storie e tradizioni: “Desideriamo intensificare la solidarietà tra i loro popoli rispettando la storia, la cultura e le tradizioni”, per portarle nel futuro dei popoli d’Europa.
Oggi, c’è anche un’altra operazione culturale e politica da compiere: il passaggio generazionale del “testimone”. La generazione, nata appena dopo la seconda guerra tra europei, deve effettuare una sorta di consegna di questa “Costruzione europea”, imperfetta e incompiuta – nei pilastri fondanti una vera e propria integrazione europea culturale, economica, sociale, politica – alla generazione che stava, letteralmente, nascendo, mentre il muro di Berlino crollava.
Ovunque il cantiere è aperto, in nessun punto il processo è concluso. Ed ora, nuove spinte centrifughe e distruttive emergono in uno scenario di pericolosa stasi della prospettiva e di appannamento della strategia comune. E’ ora di reagire. E’ il compito della nuova generazione di europei ed europee.
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Non è un compito facile. Abbiamo bisogno di recuperare un tempo, enorme, di distrazione nella conoscenza e consapevolezza della evoluzione e trasformazione delle società dei Paesi membri e della non cura dei rispettivi tessuti democratici, con le specificità storiche e sociologiche nelle due parti dell’Europa orientale e occidentale. L’attuale modello istituzionale, peraltro, che affida la responsabilità del monitoraggio del rispetto dello Stato di diritto e del procedimento democratico negli Stati membri alla Commissione europea, non favorisce una iniziativa adeguata, con l’autorevolezza necessaria, tra la fermezza sulla sostanza dei principi previsti nei Trattati (e accettati con l’adesione!) e il rispetto dei sentimenti (“intensificare la solidarietà tra i loro popoli rispettandone la storia, la cultura e le tradizioni” – Preambolo del T.U.E.) dei popoli europei. A tal fine sarebbe auspicabile che fosse il Parlamento europeo (“composto dai rappresentanti dei cittadini dell’Unione” – art. 14/2) la istituzione preposta al monitoraggio del “rispetto” dei valori di cui all’art.2 e dell’impegno a “promuoverli” –cfr. art. 49) e alle conseguenti procedure di intervento; anche in considerazione del virtuoso partenariato con “i Parlamenti nazionali (che) contribuiscono attivamente al buon funzionamento dell’Unione” (art. 12).
Con un crescendo via via intenso e con forme diversamente urticanti, nei diversi Paesi membri è tornato a manifestarsi la “questione nazionale”; insieme ad una diversificata – in certi casi inattesa e stupefacente, per la sua inadeguatezza – declinazione della “questione democratica”.
E’ noto che “lo stato nazionale è la principale innovazione istituzionale dell’Europa, accanto al capitalismo di mercato e all’universalità di ricerca; nell’esperienza storica della modernità europea rappresenta l’incarnazione dell’autorità politica e il principale fattore di strutturazione della società, al cui interno sono state affrontate le grandi questioni della libertà individuale, della giustizia sociale, della risoluzione non violenta dei conflitti” (cfr. A. Cavalli-A. Martinelli, “La società europea”, il Mulino, 2015). Si tratta di una realtà storica ed antropologica, ineliminabile: nelle culture e nelle identità europee, infatti, “l’ideologia nazionalista possiede una grande forza emotiva, sviluppa identità collettive e movimenti ppolitici, miranti a promuovere la sovranità, l’unità, l’autonomia di coloro che vivono in un territorio dato, sono legati da una cultura politica distintiva e condividono un insieme di fini comuni” (ivi).
E’ necessario, pertanto, tenere insieme tre acquisizioni: a) nazione e nazionalismo incorporano anche elementi premoderni, ma sono e restano forme ed espressioni della modernità; b) gli stati nazionali non sono (forse come sbrigativamente si pensava) in via di sparizione, ma certamente sono impari – come tali – a confrontarsi (anche dal punto di vista della forma e sostanza di una democrazia sovranazionale) con la crescente e permanete interdipendenza globale, da una parte, e la contestuale tendenza alle segmentazioni identitarie localistiche, dall’altra; c) questa fase della integrazione europea (sia quella realizzata prima del 1989-1990; sia quella successiva) non ha dimostrato di saper assumere il dato storico del nazionalismo (se non come contrasto efficace alle sue manifestazioni più estreme: le guerre intra europee; contrasto che oggi non riesce ad estendersi all’urgente azione tesa a rimettere nell’alveo democratico le violazioni allo Stato di diritto) e andare oltre il semplice stigmatizzarlo, inglobandolo nel suo processo di integrazione e trasformandolo in un valore per una appartenenza più ampia, riconoscibile di fronte al mondo. E’, dunque, a questo livello che bisogna produrre una decisa innovazione: cambiando in profondità il modello di governance dell’Unione, perché la “logica funzionalista e i meccanismi politici del passato non sono più sufficienti”.
“Diario europeo” assume e incoraggia l’inizio di un cambio di passo riscontrabile nell’azione del Consiglio Affari Generali della UE, che ha cominciato ad affrontare il tema dello Stato di diritto all’interno dell’Unione; e condivide pienamente la proposta dell’Italia di tenere un dibattito regolare, volta a volta su un tema specifico legato allo Stato di diritto, insieme con un dibattito annuale, tra pari, all’interno del Consiglio Affari Generali, non più declinato per specifici aspetti, bensì sulla situazione generale dello Stato di diritto di 4 o 5 paesi diversi ogni anno: scelti perché ritenuti prioritari per le loro specifiche buone prassi o anche per le loro criticità in materia di Stato di diritto.
C’è, dunque, un lavoro enorme da condurre per rivitalizzare l’insieme del pensiero europeo a fondamento della democrazia europea. Alle esigenze – da più parti enunciate – di costruire risposte al “malessere dei nostri sistemi politici, privati di una preziosa risorsa simbolica” (Roberto Esposito) o in quanto calati in “ un mondo secolarizzato privo di riserve nascoste” ( Biagio de Giovanni), soltanto una ricerca, di lunga lena, potrà risultare idonea, senza sconti e senza derive, mobilitando tutte “le eredità culturali, religiose ed umanistiche dell’Europa” (Preambolo TUE); tutte in ricerca, con umiltà, pari dignità e uguale determinazione.

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