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Collaborative mapping: se la mappa viene dal territorio

image_pdfimage_print

mappacorviale_d0In questi anni stiamo assistendo alla crescita di una nuova generazione di geografi, sono i mappers di OpenStreetMap: esperti GIS, informatici, ma anche ciclisti, blogger locali e semplici appassionati accomunati dal desiderio di collaborare alla più sorprendente mappa mundi di tutti i tempi. Il progetto raccoglie ogni giorno migliaia di contributi che permettono di dar vita a iniziative di empowerment della cittadinanza a progetti “umanitari” e anche prodotti commerciali. Maurizio Napolitano, tecnologo di FBK e ambasciatore della Open Knowledge Foundation (OKF), ci ha raccontato le peculiarità e potenzialità per i territori di questa mappa in fieri.

Da sempre abbiamo avuto bisogno di rappresentare simbolicamente il territorio sulle mappe. Maurizio Napolitano della Fondazione Bruno Kessler racconta che la mappa era anticamente il panno di lino che guidava i pastori e le loro greggi. Le mappe sono state da sempre strumenti preziosi per esplorare, conoscere e governare, ma anche strumenti di potere, di controllo e conquista dei territori. Proprio per questo motivo venivano custodite gelosamente, come accadeva in Europa, oppure venivano distribuite e condivise perché si arricchissero di informazioni durante le esplorazioni, come nel caso dell’America. Nel corso della storia si sono susseguite diverse tecniche cartografiche e molti sono stati i tagli dati alla rappresentazione (planimetrica, a veduta prospettica, a volo d’uccello, etc).

Le mappe raccontano molto della storia del tempo: nelle rappresentazioni cartografiche si addensano questioni sociali, economiche, espressioni di potere e conoscenza. Nei secoli la tecnica si è evoluta e, soprattutto negli ultimi anni, con l’avvento dirompente della tecnologia per tutti, anche in questo mondo si è assistito a una grande innovazione nei sistemi di produzione e rappresentazione. “Dal momento in cui è diventato facile produrre dati geografici georeferenziati, chiunque può farlo e lo fa, e questo ha portato a una vera rivoluzione”, fa notare Napolitano. I mezzi e gli strumenti che abbiamo oggi a disposizione ci hanno trasformato potenzialmente in un’enorme comunità di neogeografi. “Piuttosto che essere destinatari passivi di una distribuzione top-down della mappa, le persone ora hanno l’opportunità di rivendicare sovranità sui processi di mappatura”[1].

Condividere la conoscenza del territorio

Attualmente, strumenti come uno smartphone ci mettono nella condizione di poter condividere la conoscenza del territorio. Così è nato il tour virtuale della città de L’Aquila realizzato da Graziano Di Crescenzo. Il progetto del ciclista neogeografo, HelloL’Aquila, è un ottimo esempio di quanto oggi siamo in grado di fare condividendo informazioni georeferenziate. (Qui l’intervista video a Barnaby Gunning, durante #SCE2014)
In questo orizzonte in cui le tecnologie ci suggeriscono che è tempo di innovare, nasce OpenStreetMap. Si tratta di un progetto ambizioso, ideato nel 2004 dell’ingegnere britannico Steve Coast esupportato dall’omonima fondazione: il più grande sforzo di collaborative mapping al mondo. L’idea è creare una mappa mundi ben diversa da tutte le altre: una mappa che viene dal territorio, dalle persone, e si offre gratuitamente e in modalità open al territorio. “Un prodotto come Wikipedia, ma per le mappe”, racconta Napolitano. Ad oggi, a distanza di dieci anni dalla nascita, la comunità di mappers è costituita da oltre due milioni di cittadini sparsi in tutto il mondoche contribuiscono, impiegando tempo ed energie nell’iniziativa. Nell’ultima settimana sono stati attivi circa 10.000 membri (fonte: OSMstats), i quali hanno raccolto le più svariate informazioni sul territorio: dalle fontanelle di Roma (nasoni) al tipo di asfalto delle strade, dal numero degli alberi di una strada al numero di gradini per accedere a un parco, etc.

Rendere visibile ciò che è invisibile

Negli anni il progetto di OSM ha stimolato la nascita di numerose iniziative umanitarie, di collaborative mapping ed empowerment delle popolazioni. Nell’agosto 2010, immediatamente dopo il terremoto di Haiti, è nata l’organizzazione HOT (Humanitarian OpenStreetMap Team): un punto di connessione tra gli attori umanitari e le comunità di open mapping. L’ONG americana, supportata anche dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti attraverso MapGive (qui la versione italiana), ha presto dato vita a nuovi progetti interessanti come il Missing Maps Project, che ha l’obiettivo di mappare i luoghi più vulnerabili nel mondo in via di sviluppo affinché ONG internazionali e locali, così come gli individui, possano usare liberamente mappe e dati per meglio rispondere alle crisi che interessano le aree.
Un’altra entusiasmante iniziativa, avviata nel 2008, è MapKibera. Kibera è infatti il nome di un luogo non riconosciuto, un blank spot: il più grande slum della città di Nairobi, uno spazio invisibile alle mappe, macon un’altissima concentrazione demografica (circa un milione di persone vive in questa baraccopoli, la più estesa di tutta l’Africa subsahariana). Il motto del progetto è stato “rendere visibile ciò che è invisibile”. Oggi le toilette pubbliche di Kibera, i generatori dove ricaricare le torce elettriche, la sua stessa toponomastica sono riconoscibili grazie alla mappa di OSM e ciò invita a riflettere. Secondo dati ONU, entro il 2030 circa due miliardi le persone vivranno in shantytowns, bidonvilles, slums, favelas, etc. Per quella data saranno ancora luoghi invisibili?

Il potere di tracciare la rotta

Il progetto OSM enfatizza la conoscenza locale del territorio e mette propriamente nelle mani delle persone il potere di scegliere cosa mappare. Prerogativa solo apparentemente simile, ad esempio, alle mappe di Google che, pur essendo oggi aperte a contributi volontari grazie a Google Map Maker, restano sempre mappe commerciali, di proprietà di una multinazionale, che mantiene il pieno controllo su cosa viene pubblicato sulla propria mappa. “Quello che c’è sulla mappa lo decide chi fa la mappa”, insiste e sottolinea Napolitano, “se io decido di far sparire una cosa, quella cosa sparirà”. E questo è effettivamente il punto nodale. OpenStreetMap si distingue profondamente da ogni altro progetto simile perché mette al centro di tutto il processo i cittadini, che sono al contempo artefici, fruitori e “proprietari” dei dati, nonché potenziali inventori di nuovi prodotti a partire da questi. “We’re giving people the freedom to play with the data, whereas [other services] keep it to themselves”, scrive Coast. Non si tratta soltanto di un progetto crowdsourced, ma soprattutto di un progetto open. I dati di OSM sono resi disponibili secondo la ODbL (Open Database License), rendendoli a tutti gli effetti open data, riutilizzabili e condivisibili a patto di garantire la stessa libertà agli altri. La visualizzazione della mappa è quindi solo la punta dell’iceberg: i dati aperti consentono diverse rappresentazioni, evidenziando molteplici aspetti del territorio, e diverse modalità di fruizione. Le mappe di Google o Bing sono invece accessibili esclusivamente tramite modalità predeterminate dalla multinazionale che le rende disponibili e che può in ogni momento cambiarle o renderle indisponibili, a seconda della propria convenienza e in base alle proprie logiche commerciali.

Le PA al bivio

Nell’articolo Why the World Needs OpenStreetMap – divenuto rapidamente popolare – Serge Wroclawski spiega come un governo, o una PA in questo caso, avrebbe bisogno di rimanere sempre imparziale, anche nella scelta di che tipo di mappe del territorio veicolare. Dando in outsourcing le proprie mappe, di fatto affida il controllo di queste a terzi, ad esempio consentendo a Google di scegliere quali attività commerciali mostrare sulla mappa (già oggi vengono favorite le attività commerciali che maggiormente curano il proprio profilo sui siti Google). Scegliere di utilizzare una mappa aperta e libera significa invece mantenersi imparziali rispetto a interessi commerciali estranei al bene della comunità, riconoscendo allo stesso tempo ai cittadini un ruolo attivo nella produzione di conoscenza relativa al territorio.
Nel corso di questo decennio, la comunità italiana di OpenStreetMap ha organizzato molti mapping party sul territorio. Si tratta di momenti strutturati in sessioni di lavoro collaborativo (mappature) e conviviali, in cui si approfondiscono i significati e il valore del condividere la conoscenza di un territorio. Alcune regioni italiane – Lombardia, Veneto, Friuli Venezia-Giulia, Sardegna – si sono incuriosite molto e hanno preso parte al progetto ottenendo risultati interessanti, sensibilizzate anche da Simone Cortesi, uno dei pionieri di OpenStreetMap in Italia e a livello internazionale.
Già nel 2010, per fare un esempio, l’Autorità per la Partecipazione della Regione Toscana ha promosso il progetto Libero accesso, accesso libera tutti! per il Comune toscano di Castelfiorentino. Utilizzando i dati e la mappa di OSM si sono organizzati laboratori per raccogliere dati sulle barriere architettoniche all’interno del tessuto urbano. Uno strumento di resilienza del territorio “che è solo il punto di partenza per poi potere ripianificare l’assetto urbano”. Durante l’alluvione del 2013 la Regione Sardegna si è servita della mappa SardSOS che ha aiutato la comunità sarda a gestire il momento di crisi, informando la popolazione in tempo reale con segnalazioni geolocalizzate.

Solo un paio di giorni fa a Torino si è tenuto un Mappathon, un workshop promosso da Piemonte Visual Contest per imparare ad utilizzare OSM e implementare e raccogliere dati del territorio piemontese.
Un altro esempio è la mappatura della città di Matera su OSM, che in vista dell’elezione a capitale europea della cultura è cresciuta esponenzialmente.

[1] M. Dodge C. Perkins, Reclaiming the map: British Geography and ambivalent cartographic practice, 2008

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