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Il cinema non è un romanzo

Carlo Emilio Gadda

Ho per le mani il libricino edito qualche mese fa da Adelphi La casa dei ricchi di Carlo Emilio Gadda, trattamento per il cinema del suo Quer pasticciaccio brutto de via Merulana. Nel 1948 le “miserrime configurazioni argentine” (così lui chiama le sue difficoltà economiche) lo spingono ad accettare la proposta della Lux Film di ricavare una sceneggiatura dal suo romanzo che la rivista Letteratura stava pubblicando a puntate (ne erano, al momento, uscite solo cinque).

Nasce così il Palazzo degli ori: questo il titolo che Gadda diede al primo trattamento, che ebbe – come era nella natura e nella creatività dello scrittore – un complesso e travagliato cammino di scrittura.

La società cinematografica – sia pur guidata da un raffinato intellettuale, il musicologo Guido Maggiorino Gatti – non era affatto soddisfatta dello scritto che (in varie puntate e con vari ripensamenti) arrivava ai suoi lettori: la struttura del romanzo e, di conseguenza, del trattamento cinematografico, era troppo complessa, con troppi personaggi e sottotrame e, soprattutto, non era così linearmente inserita nel plot la scoperta dell’assassina.

Ritratto di Guido Maggiorino Gatti

D’altronde, il povero Gadda non era certo un giallista (anche se notoriamente amava il genere) e non a caso nel romanzo (uscito nel 1957) il whodunit – come si chiama la scoperta del colpevole in gergo – è appena accennato (lo scrittore aveva promesso all’editore Livio Garzanti un sequel chiarificatore che non vide mai la luce).

La prima copertina del romanzo

Questa apparente anomalia non era certo estranea nella produzione di Gadda, così splendidamente intenso nell’accompagnare il lettore nei meandri della proprie ansie narrative ed emotive da, quasi, non tollerare che le vicende narrate si facessero cronaca spicciola. Di fatto anche nel suo capolavoro (comunque il suo testo più personale e sofferto), La cognizione del dolore non sapremo mai davvero se abbiamo letto di un matricidio o solo di una fantasia, nata dall’amore totalmente pervasivo e denso di oscure angosce del protagonista per la madre. E, in fondo, non importa: c’è lì tutto il Gadda ironico, dolente e fantastico nel ricreare immagini, suoni e neologismi, che rendono cupamente immaginifico  anche il linguaggio più crudamente quotidiano.

La Lux gli chiese di ridurre ad un quarto il corposo trattamento e di semplificarne il plot. Nacque così La casa dei ricchi che in 40 scene scarnifica e riassume la trame del romanzo, con il commissario Ingravallo che (a differenza del romanzo) raggiunge in Sardegna l’assassina (la cameriera Virginia che ha ucciso la padrona Liliana per sostituirsi a lei) mentre sta per strangolare la vecchia nonna.

Non se ne fece niente e nel ’59 il produttore Peppino Amato – pressoché analfabeta ma di sicuro istinto – acquisì i diritti del libro e convinse Pietro Germi a dirigere il film, che nel ’59 uscì con il titolo Un maledetto imbroglio, il più bel poliziesco della storia del cinema italiano e, praticamente, un film perfetto (ai tempi fu accolto con sussiegosa benevolenza dalla critica – allora quasi tutta comunista – che non concedeva granché al “saragattiano” Germi).

La storia del romanzo vede il commissario Ingravallo indagare su di un furto nella casa al centro di Roma di una stramba signora, che frequentava ambigui giovinastri e, dopo una settimana, sull’omicidio a scopo di rapina della religiosissima signora Liliana nello stesso stabile. Le due indagini parallele, nel romanzo, avranno pochi elementi di contatto ma il racconto sviluppa tutto il sarcastico disprezzo che Gadda provava per la corrotta e sorniona borghesia e, in fondo, per le donne di quel ceto, conniventi, nella sua visione (vedi Eros e Priapo), con le peggiori storture della società.

Germi.- insieme ai co-sceneggiatori Alfredo Giannetti e Ennio De Concini – ne asciuga trama e personaggi (ad es. la prima rapina vede come vittima il vicino gay che nel romanzo era un testimone reticente) e cambia completamente il finale: l’assassino è uno dei gigolò che circolavano nel palazzo e che, pentito, ha sposato l’ultima cameriera di Liliana, sua complice nel furto finito male (ma il commissario lascerà andare la ragazza – una indimenticabile Claudia Cardinale – impietosito della sua gravidanza).

La babelica – quasi atonale – confusione di persone, situazioni e lessico, che fa di Gadda uno dei maggiori letterati italiani del secolo scorso, nel film si sistema in bozzetti, nel tono tra l’ironico, l’indignato e il teneramente sarcastico che sarà alla base del suo splendido Signore & signori del 1966.

Il libricino ci consente così una riflessione sui rapporti tra il cinema e la letteratura. Si è sempre sostenuto che gli scrittori sono i peggiori sceneggiatori delle proprie opere e se ne capisce anche il perché: da un lato la scrittura letteraria e la sceneggiatura sono molto diverse tra loro, dall’altro, l’autore non potrà non difendere la propria creatura dalle semplificazioni e dagli stravolgimenti della riduzione cinematografica.

Esistono sempre delle eccezioni: una è senz’altro la serie televisiva Montalbano ma Camilleri nasce scrittore televisivo e i suoi romanzi – tutti successivi a quell’esperienza – sono già, nei fatti, delle sceneggiature.

Da Un maledetto imbroglio ci viene invece una conferma: Germi (che del romanzo aveva letto solo metà, annoiato dai suoi funambolismi linguistici) rifuggiva come la peste le – per sua fortuna rare – incursioni di Gadda sul set ma lo scrittore, quando vide il film, lo apprezzò moltissimo, considerandolo – come era – un bellissimo poliziesco più che la riduzione della sua opera.

Tutto nel film farà epoca: l’essere stato il primo – mai raggiunto – esempio di vero polar italiano, il cast perfetto, la cruda ed avvolgente fotografia di Leonida Barboni e, non ultima, la bellissima canzone Sinnò me moro che Carlo Rustichelli affida alla figlia sedicenne Alida Chelli e che segnerà un svolta epocale nella tradizione della canzone romana.

Solo nel ’96 avremo una riduzione fedele del Pasticciaccio: Ronconi firma la sua ultima regia teatrale con un operazione, che per molti versi, ci riporta al suo Orlando Furioso, restituendo il mosaico linguistico ed umano del romanzo con un cast pieno di grandi attori (compreso un giovanissimo Favino).

Una scena del Pasticciaccio di Ronconi

 Ma, appunto, era teatro.

Antonio Ferraro




Nomadland

di Chloé Zhao. Con Frances McDormand, David Strathairn, Linda May, Charlene Swankie, USA 2020

Fern (McDormand), vedova e senza figli, è rimasta nel piccolo centro di Empire, pieno di ricordi della sua vita serena accanto al marito Bo, anche quando l’attività del cartongesso che dava lavoro alla comunità si è esaurita. Quando non rimane più nessuno se non l’anziano guardiano Gay (Gay DeForest), sale sul suo van che ha attrezzato come un piccolo camper e parte. La sua pensione è insufficiente anche per la sua vita di quasi vagabonda e lei deve integrarla con lavori saltuari, talora facendo l’operaia stagionale ad Amazon. Qui fa amicizia con Linda (May) che le parla di Nomadland, un’area dedicata a quelli come loro, fondata da Bob Wells (se stesso) dove i nomadi a quattro ruote possono parcheggiare senza rischio di essere scacciati dai guardiani e condividere il poco che hanno con gli altri. Nel campo conosce l’anziana e gentile Swankie (Swankie) e il bel Dave (Strathairn), con il quale forse potrebbe nascere un sentimento. Regala anche un accendino al giovane biker Derek (Derek Endres), nomade per scelta. Swankie le chiede di aiutarla ad alleggerire il proprio van perché sta per partire per l’Alaska: ha una malattia terminale e vuole tornare a vedere le rondini che nidificano in una parete di roccia su un fiume. Dave la fa arrabbiare perché, nel maldestro tentativo di aiutarla, le rompe i piatti che erano il suo solo ricordo di famiglia; quando però lui si ammala lei lo accudisce, preparandogli il brodo di pollo Campbell. Poco dopo lui trova lavoro in un grill e fa assumere anche lei. Non fanno nient’altro che lavorare e, la sera, andare a bere ed a ballare un po’ ma stanno bene insieme. Un giorno arriva al lavoro Cat (Cat Clifford), il figlio di Dave che gli comunica che sta per nascergli un figlio e vorrebbe che lui tornasse a casa. Lui – che si sente in colpa per essere stato sempre assente – accetta e invita Fern ad andare a trovarli. Dopo un po’, lei si decide e lo trova sereno con la famiglia ed il nipotino; tutti la accolgono affettuosamente e Dave, dopo qualche giorno, le chiede di rimanere. Lei è tentata ma il mattino dopo saluta e va via. Anche la benestante sorella (Emily Jade Foley) – dalla quale è andata per prendere in prestito i soldi che le servono per riparare il vetusto van – le chiede di restare ma lei non ce la fa. Swankie le manda un filmato che testimonia come, prima di morire, abbia potuto rivedere la nascita dei rondinini e Bob le confessa di aver scelto quella vita dopo la morte del figlio quattordicenne e di essere convinto che, nel cammino della vita, prima o poi, vivi e morti amati sono destinati ad incontrarsi. Fern torna nella sua vecchia casa di Empire e, come pacificata, gode di nuovo del bel panorama che si vede dal retro.

Il vagabondo ha sempre avuto uno spazio speciale nell’immaginario artistico: possiamo  citare per la pittura Caravaggio, Goya e Bruegel ma rimanendo, al cinema ed alla narrativa (Nomadland è tratto dall’omonimo racconto/inchiesta di Jessica Bruder), gli esempi non mancano: da Chaplin a Stanlio e Ollio, a Jerry Lewis, a Fernadel, da Totò a Macario il trump (figlio del tenero clown Augusto della tradizione circense) è stato al centro di molte delle loro caratterizzazioni. Non è improbabile che dietro quest’idea del buffo, tenero, talora tragicamente triste vagabondo ci sia l’antico retaggio del Carro dei Comici, la sconquassata carovana che portava gli attori nelle piazze e nelle corti di tutto il mondo. La letteratura picaresca spagnola si basa su poveri cristi che girano in cerca di qualcosa da mangiare ed un tetto provvisorio e quasi un secolo fa G.B.Shaw scoprì e fece editare la deliziosa Autobiografia di un vagabondo di William H.Davies, che racconta le sue peripezie e i trucchi di un vero senzatetto-  tra la fine dell’800 e il primo ‘900 – per sopravvivere (dal rubare le torte che le massaie mettevano in finestra a raffreddare al farsi arrestare per piccoli reati per stare al caldo). Somerset Maugham ne La luna e sei soldi racconta la vita errabonda di Paul Gaugin, alcuni dei 49 racconti di Hemingway danno un senso di rito iniziatico al vagabondare del giovane alter-ego dello scrittore, mentre i protagonisti di Furore di Steinbeck (e del successivo film di John Ford) sono operai e contadini americani in marcia con le famiglie per la crisi occupazionale degli anni ’30.  In Italia son anche usciti alcuni gialli con protagonista un vagabondo, Tre Soldi di Giuseppe Ciabattini. Molte opera della beat generation hanno al centro il girovagare degli autori in cerca di qualcosa: se stessi (il Kerouac di Sulla strada, I vagabondi del Dharma, Big Sur) o una nuova droga (Le lettere dallo Yage di William Burroughs e Allen Ginsberg). Al cinema infine – oltre ai comici già citati – vanno ricordati l’astuto clochard di Michel Simon in Boudu salvato dalle acque (Jean Renoir, 1932), lo smemorato George Wilson de L’inverno ti farà tornare (Henry Colpi, 1961), il leonino Lee Marvin de L’imperatore del nord (Robert Aldrich, 1973) e la ribelle Sandrine Bonnaire di Senza tetto né legge (Agnes Varda, 1985). Per qualche verso la Fern di McDormand/Zhao ha punti di contatto con il film della Varda ma l’animo del racconto è molto più nuovo di quanto non appaia ad una prima lettura: i protagonisti di Nomadland sono mossi, tutti chi più chi meno, da un lutto – reale o introiettato – non elaborato. Nel vederlo mi sono venuti in mente i versi di Lavorare stanca di Pavese: “Val la pena esser solo/ per essere sempre più solo?”; ecco, il film risponde: il prezzo del non essere solo (l’abbandono, la perdita, la mancanza) è più alto dei sacrifici della marginalità della solitudine. In questo la criticata scena dell’attacco di diarrea espletato in secchio è tutt’altro che gratuita: è spesso dura e sgradevole la vita da nomadi ma i dolori che ci fa lasciare alle spalle sono più insopportabili. Il film, come è noto, ha vinto il Leone a Venezia e i tre Oscar più importanti (Film, regia, protagonista) e senza la McDormand, che ha preso i diritti del libro, lo ha prodotto ed interpretato, affidandone – con coraggioso intuito – la regia alla non celeberrima ma perfetta per questo soggetto Chloé Zhao, non avrebbe visto la luce. Va detto che lei è, come al solito, bravissima attrice ma viene talora messa in ombra dalla umanissima naturalità dei veri nomadi che sono la stragrande maggioranza del cast, altra bella intuizione di un film di grande profondità.

Antonio Ferraro




Lei mi parla ancora

di Pupi Avati. Con Stefania SandrelliIsabella RagoneseRenato PozzettoLino MusellaFabrizio Gifuni Italia 2021

Nino Sgarbi (Pozzetto) è a letto con la moglie Rina (Sandrelli) e, preoccupato, per il ricovero in ospedale al quale lei di dovrà sottoporre, le ricorda la lettera che gli aveva dato prima di entrare in chiesa per il loro matrimonio, nella quale scriveva: “se mi giuri sull’altare che ci ameremo sempre come adesso, saremo immortali”. Lei non tornerà più dall’ospedale e i figli, Vittorio (Matteo Carlomagno) ed Elisabetta (Chiara Caselli), per non dargli un ulteriore dolore – ma la notizia lui l’aveva avuta dal cognato Bruno (Alessandro Haber) che, morto, gli era apparso in sogno – vanno da soli al funerale, lasciando il padre in compagnia del fedele Giulio (Nicola Nocella). Nino continua, nei mesi successivi, a parlare per ore con l’adorata moglie, trascinandosi cupamente per la casa. Elisabetta decide che gli sarebbe di grande aiuto scrivere un libro nel quale raccontare quell’amore così grande ed assoluto ed incarica un’agente letterario (Gioele Dix) di cercare uno scrittore adatto al compito di mettere insieme quei ricordi. La scelta cade su Amicangelo (Gifuni), ghostwriter per necessità (scrive finte autobiografie di calciatori, cantanti e attori), con un romanzo nel cassetto e una vita sentimentale e professionale complicata: è separato, costante moroso nel mantenimento di moglie e figlia e convivente con una ragazza giovanissima. L’accordo prevede che la Sgarbi, oltre a pagarlo per il suo lavoro, si impegni a leggere – ed eventualmente a pubblicare –  il romanzo (dal pretenzioso titolo Di cosa parliamo quando parliamo di Carver) che fino a quel momento tutti gli editori gli avevano rifiutato. Amicangelo si reca a Ro Ferrarese e raggiunge la villa Sgarbi; qui Nino gli dice che può rifocillarsi, ammirare le opere della loro bella collezione ma niente di più: lui non ha intenzione di condividere i suoi ricordi con uno sconosciuto. Rabbioso, lo scrittore intima a Giulio di portarlo in stazione ma una tempesta di neve li ferma. Di lì a poco lo raggiunge, inaspettata, Elisabetta che scoppia a piangere e, abbracciandolo, lo prega di non desistere. Il padre, più che altro per far piacere alla figlia, comincia a raccontare e, pian piano, si lascia andare a memorie piene di tenerezza. Vediamo così i giovani Nino (Musella) e Rina (Ragonese) che si conoscono e si innamorano subito, i loro momenti sereni con Bruno (Filippo Velardi) e gli amici, il matrimonio (osteggiato dai parenti di lei per via delle umili origini dello sposo); segue il loro trasferimento nella casa in campagna di lui, dove un gineceo di aspre sorelle e zie – capitanate dalla madre Clementina (Serena Grandi) – le rende la vita impossibile, tanto da indurlo a chiederle di non rimanere in quel luogo ostile: lei sulle prime gli darà retta ma poi – ricordando a promessa della lettera – torna sui propri passi e, insieme, prenderanno le due farmacie la villa di Ro. L’ultima parte del racconto è dedicata all’avventurosa ricerca e acquisizione delle opere della loro collezione d’arte, sino ad un prezioso Guercino. Nino, mentre racconta di sé, convince Amicangelo a non dispendere gli amori della sua vita e lui comincia a frequentare con nuova consapevolezza paterna la figlia Gioia (Giulia Pricigalli). Quando il lavoro è finito lo Sgarbi saluta l’amico scrittore con una frase di Pavese: “L’uomo mortale non ha che questo di immortale: il ricordo che porta e il ricordo che lascia”. Poco dopo Bruno chiama in sogno Nino perché raggiunga lui e Rina.

Lei mi parla ancora, va detto subito, non è un film avatiano: è un film di Avati, ha momenti e personaggi nei quali lo stile del regista viene fuori appieno (la festa in riva al fiume, la balera improvvisata, il cognato fan dei Radio Boys, le pettegole parenti di Nino) ma non lo si coglie come un “suo” racconto. Certo, però, il tema dell’amore che sfida tutto, la poesia di un quotidiano scandito dai tortellini e la splendida capacità di concertare attori e arredi in modo che niente stoni in un insieme assonante sono tutte ascrivibili alla poetica (e alla tecnica) dell’autore. E’ vero, pur in un racconto così concentrato, manca un vero centro narrativo (anche dal punto vista visivo: luci e chiaroscuri si alternano con eleganza ma non sempre ci fanno partecipi di un racconto) e questo rende un po’ legata la recitazione di un attore di testa come Gifuni; mentre Pozzetto, contemporaneamente tenuto ad un testo preciso e lasciato libero di esporre la propria malinconia, ci dà un Nino Sgarbi che rimarrà nelle storie del cinema. Lui sostiene, in un intervista, di aver avuto solo un’altra occasione di vero impegno attoriale, in Gran bollito Bolognini; in realtà era stato già grande in Sono fotogenico di Dino Risi che aveva sfruttato perfettamente la sua recitazione “in levare”, dandoci un personaggio profondamente delceamaro. Ora, 40 anni dopo, Avati ci consegna un Pozzetto meravigliosamente fotogenico.

Antonio Ferraro




Natale in Casa Cupiello

di Edoardo De Angelis. Con Sergio Castellitto, Marina Confalone, Adriano Pantaleo, Toni Laudadio, Pina Turco. Italia 2020

La storia è nota: Luca Cupiello (Castellitto), tuttofare di una tipografia, come ogni Natale si accinge a fare il presepe, osteggiato dalla moglie Concetta (Confalone) – sulla quale grava l’onere di tutte le difficoltà familiari che il superficiale marito non percepisce nemmeno – e dal figlio Tommasino, detto Nennillo (Pantaleo), dispettoso e un po’ regressivo. I guai non mancano certo: Nennillo, profittando di un infreddatura dello zio Pasqualino (Laudadio), che vive con loro, gli ha rubato i pochi soldi che aveva con se e gli ha venduto cappotto e scarpe, mentre la figlia Ninuccia (Turco) – sposata con il ricco commerciante Nicola (Antonio Milo) per volere dei genitori – ha una relazione con Vittorio (Alessio Lapice) con il quale vorrebbe fuggire. Arrivano per il cenone Nicola e Ninuccia e quest’ultima fa vedere alla disperata madre la lettera di addio che ha scritto al marito; Concetta, in lacrime, la convince a gettarla via ma sarà l’ignaro Luca, leggendo l’intestazione sulla busta, a consegnarla al genero e sarà sempre lui ad invitare a cena Vittorio, scambiandolo per un amico del figlio e ignorando i dinieghi di Concetta, che crede dovuti a tirchieria. Esplode la tragedia e Nicola accusa i Cupiello di tener mano alla tresca. Luca, sconvolto, ha un ictus. Sul letto di morte, pianto dalla famiglia di nuovo unita (con Nennillo che rivela una dolente coscienza adulta), dopo aver involontariamente insultato il dottore (Andrea Renzi), Luca fa l’ultima gaffe: sotto gli occhi del marito, si fa promettere da Ninuccia e Vittorio (che, nel delirio della malattia, ha confuso con Nicola) di stare insieme per sempre.

È ovvio che un autore come Eduardo venga rappresentato e re-interpretato in mille modi (proprio Natale in casa Cupiello ha avuto da poco – per il Teatro di Roma – una funebre messa in scena con accenti brechtiani di Antonio Latella) e a questo film di De Angelis – e alla generosa produzione Picomedia – trasmesso il 23 si può certamente riconoscere il merito di aver portato un gran pezzo di teatro con un ottimo cast a trionfare nella prima serata di Rai1. De Angelis ha al suo attivo una bella filmografia, nella quale spiccano lo splendido Indivisibili e l’intenso Il vizio della speranza e, inevitabilmente, ha dato un forte tocco personale all’operazione: i suoi attori-feticcio (la moglie Pina Turco e il bravissimo Massimiliano Rossi, nel cameo fuori testo di un artigiano dei presepi) le scenografie, i costumi e le luci cupamente desolate ci portano nel suo mondo ma contribuiscono a travisare il testo originale (deve essere questa la ragione per la quale – pur in un assoluto rispetto dei dialoghi e del plot della sua commedia –  Eduardo De Filippo viene indicato solo come soggettista). Non va dimenticato che alla prima stesura, Natale in casa Cupiello (messo in scena per la prima volta dalla Compagnia del Teatro umoristico “I De Filippo” a Natale del ’31) era un atto unico, sostanzialmente coincidente con il secondo atto della commedia che conosciamo, non a caso il più comico dei tre. Qui sta il punto: Eduardo era figlio della grande tradizione degli Scarpetta (aveva recitato, da bambino, con il padre biologico Eduardo e, da giovane, con i fratellastro Vincenzo) e, anche nei testi più drammatici, sapeva inserire irresistibili spunti comici che arricchivano e umanizzavano i personaggi e le situazioni. Inoltre, con feroce autocritica, “era” i personaggi – dispotici, sognatori e caparbi – che interpretava: il burbero e vendicativo Ferdinando Quagliuolo di Non ti pago, il disilluso Gennaro Iovine di Napoli milionaria, lo spocchioso Domenico Soriano di Filomena Marturano, il fantasioso guitto di Uomo e galantuomo sono tutte facce del nostro più grande attore-autore del secolo scorso.

Non si può certo dire niente della prova degli interpreti del film tutti bravi (il mio preferito è Adriano Pantaleo: quanta strada dallo Spillo di Amico mio!) a partire da Castellitto (pretestuoso rilevare il suo non essere napoletano: sono stati ottimi interpreti di commedie eduardiane, tra i tantissimi: Laurence Olivier, Marcello Mastroianni, Renato Rascel non certo partenopei doc) ma alla fine della visione delle cupe vicende di una famiglia disfunzionale (come l’ha definita Castellitto) senza i vitali guizzi di ironia che rendevano quelle miserie “speciali”, il film fa tornare in mente la poesia di Eduardo:
‘O rrau
‘O rraù ca me piace a me
m’ ‘o ffaceva sulo mammà.
A che m’aggio spusato a te,
ne parlammo pè ne parlà.
Io nun sogno difficultuso;
ma luvàmell”a miezo st’uso.
Sì, va buono: cumme vuò tu.
Mò ce avèssem’ appiccecà?
Tu che dice? Chest’è rraù?
E io m’a ‘o mmagno pè m’ ‘o mangià…
M’ ‘a faje dicere na parola?
Chesta è carne c’ ‘a pummarola.
Come dire: mme piaceva ‘o presebbio, chesto l’aggio guardato ppe’ m’ ‘o guardà.
Antonio Ferraro




Dio salvi la Regina

di Andrés Arce Maldonado. Con Sibilla BarbieriMariano RigilloIgor MatteiBabak KarimiVittorio Allegra  – Italia 2020

 

Diana (Barbieri) è un medico della Asl, è separata e vive con due figli, Orlando (Allegra) studiosissimo ma insofferente della disciplina scolastica e dei voti e Perla (Ella Gorini) che è in piena tempesta adolescenziale. La sua vita familiare è normalmente complicata – i figli da accompagnare, la scuola che non fa nessuno sforzo per capire i ragazzi, il condominio perpetuamente ostile –  e la sua vita professionale sostanzialmente insoddisfacente: lei vorrebbe fare seriamente il medico ma i suoi pazienti o le chiedono ingiustificati certificati di malattia o  sono come l’ipocondriaco ingegner Braccialetti (Alberto Caneva), che – spalleggiato dalla materna e sofferente moglie (Paola Muratore) -pretende visite, consulti e ricoveri per malattie inesistenti. Un giorno, stanca di tutto quello che non funziona, va dal padre (Rigillo), prestigioso avvocato divorzista e gli chiede come può fare a fondare in casa propria uno Stato indipendente. L’Avvocato (così rispettosamente tutti lo chiamano) cerca di dissuaderla ma lei non si dà per vinta: manda un esposto al Presidente della Repubblica e a tutte le autorità competenti con la quale chiede che al suo appartamento sia riconosciuta la dignità di Stato e, proclamandosi Regina, issa sul terrazzo una bandiera azzurra, decidendo che al suo interno campeggi un animale dello stesso colore (via via uno diverso: un uccello, un delfino, un elefante, tutti rigorosamente azzurri). Partecipano, con diversi gradi di entusiasmo, al progetto i figli, il fratello Marcello (Mattei) – che ha da qualche tempo di deciso di vivere nella natura, senza lavorare e ha troncato il legame con la sua compagna Rosa (Ana Brigitte Fernandez) –  le sua amiche Elena – innamorata di un uomo sposato (Vittorio Ciardo) e in costante attesa che lui lasci la moglie – e Sam – che in ogni  situazione trova e sottolinea un contenuto sessuale – e la colf sudamericana Lupe (Maria Irma Reyas) alla quale piace comunque il casino. Marcello è, ovviamente, il più partecipativo al progetto e si piazza con una tenda canadese sul terrazzo della sorella, mentre Rosa – che spera di riconquistarlo – si presenta a casa ad ogni occasione; Orlando comunica che da quel momento non andrà più a scuola e, quando la madre gli comunica che non gli darà più da mangiare, la sorella lo segue in una sorta di sciopero della fame (naturalmente Lupe provvederà a dar loro di nascosto i manicaretti che cucina). Sarà il nonno a risolvere la situazione: porta a cena il nipote e, con il realismo di uomo navigato, gli prospetta le dura alternative che il rifiuto di un regolare corso di studi gli aprirebbero, convincendolo a tornare al liceo. Diana litiga con il condominio per via della bandiera che copre l’antenna centrale e trova un’inaspettata complicità nel Professore (Filippo Gili), uno scorbutico vicino che la intrigava. Elena, intanto, va da Diana e comunica di aver aggredito l’amante e di averlo lasciato, salvo, quando lui si presenta in casa, passare la notte con lui sul divano. La professoressa (Raffaella D’avella) di Orlando ha deciso di bocciarlo e quando lo comunica a Diana, lei per nulla contrariata dichiara di essere fiera dell’indipendenza del figlio. Tutto finirà in una festa nell’appartamento/regno di Diana, nel quale hanno trovato rifugio anche l’ingegnere distrutto dalla morte della moglie, autenticamente malata, e un simpatico Apolide (Karimi) in cerca di uno Stato a sua misura. La favola finisce ma la voglia di libertà di Diana e dei suoi “sudditi” no.

Sibilla Barbieri, poliedrica artista, questo film lo ha scritto, prodotto ed interpretato ma – contrariamente a quanto spesso avviene in questi casi – ha messo insieme un cast di grande sapienza attoriale e lo ha affidato ad un regista esperto, il quale, a sua volta, ha saggiamente deciso di mettersi al servizio della storia senza sbavature d’autore. Il risultato è una sorta di comédie de boulevard teneramente anarchica, che è una bella novità in un panorama di fasulle post-commedie all’italiana intrise di conformistico moralismo. Ciascuno degli attori meriterebbe una menzione ma ci si può limitare a segnalare la efficacissima presenza di Mariano Rigillo (“Quando ha accettato sono quasi svenuta” dice l’autrice), di Babak Karimi (Orso d’Argento a Berlino per Una separazione di Asghar Farhadi, che ha vinto l’Oscar nel 2012) e, in piccolo, buffo ruolo, di Jun Ichikawa (la protagonista di Cantando dietro i paraventi di Ermanno Olmi). Non si può, però, non concentrare    l’attenzione su come Simona Barbieri riesca a magnetizzare costantemente lo sguardo e le emozioni del pubblico e Igor Mattei dia un segnale forte nella direzione della commedia alla francese, riuscendo a sfuggire al tranello di un facile chaplinismo (nel quale attori meno esperti e profondi avrebbero rinchiuso il drop-out Marcello), trovando i toni del Jean Gabin di Archimede il clochard o del Michel Simon di Boudou salvato dalle acque. E’ naturale che un film così indipendente e personale abbia dei difetti – quasi tutti dovuti alle limitazioni di budget – ma il risultato è un’opera frasca, divertente e, vivaddio, lontana dai provincialismi, spesso ideologici, del nostro cinema.

 

 

 




Non odiare

di Mauro Mancini. Con Alessandro GassmannSara SerraioccoLuka Zunic, Lorenzo BuonoraCosimo Fusco Italia, Polonia 2020

Il medico Simone Segre (Gassmann), uomo solitario e incupito, sta facendo canottaggio quando sente il rumore di un incidente. In una macchina semidistrutta c’è un uomo (Maurizio Zacchigna) gravemente ferito; lui chiama il pronto soccorso e si sfila la cintura per frenarne l’emorragia ma gli vede, tatuati sul petto e sul braccio, simboli nazisti, rabbiosamente si rimette la cinghia; all’arrivo dell’ambulanza l’uomo è morto e lui comunica di non aver potuto fare niente per salvarlo. Simone torna a casa in preda a violenta angoscia e, qualche giorno dopo, assiste da lontano al funerale dell’infortunato; ci sono i suoi ex-camerati e i tre figli: Marica (Serraiocco), Marcello (Zunic) e il piccolo Paolo (Buonora). Il più grande ha chiaramente seguito le orme del padre ed è un naziskin, mentre la sorella, assennata e rassegnata, ha lasciato un buon lavoro a Roma per aiutare i fratelli, in particolare Paolo che mostra buona predisposizione allo studio e una bella manualità.   Il giorno dopo Simone segue Marica e vede che lascia in giro dei volantini con i quali si offre come colf a ore; ne prende una striscia e dopo aver licenziato la donna (Lucka Pockaj) che lavorava in casa sua, offre il posto alla ragazza. Intanto si deve occupare della casa ereditata dal padre (Fusco), un medico che, internato in un campo di concentramento, si era dovuto arrangiare per sopravvivere a curare i denti degli ufficiali nazisti. La casa è sommersa di paccottiglia ed è sorvegliata da un rabbioso cane pastore e tutto questo non fa che acuire il suo risentimento per il genitore con il quale non era in rapporti da anni prima che morisse. Marcello, frugando nella borsa della sorella, scopre che lavora per un “giudìo” e, dopo aver tentato invano di dissuaderla, va all’imbarcadero nel quale Simone sta tornando con la canoa e, di nuovo inutilmente, lo minaccia. Segre aggiunge una gratifica al salario di Marica ma lei, diffidente (è pur sempre in casa di un uomo solo), gliela restituisce. Il medico è sempre più confuso ed irritabile, tanto che in auto con un collega (Paolo Giovannucci) scaccia con rabbia un lavavetri. Una sera Marcello propone al suo amico Dario (Gabriele Sangricoli) e a un altro loro camerata, anziché un “bangla-tour” (il pestaggio di qualche immigrato), di andare a picchiare il “giudìo”; lo colgono solo in strada e lo picchiano; lui va al commissariato per sporgere denuncia ma, all’ultimo minuto, torna indietro. Intanto Marica e Marcello vengono contattati dal caporione neofascista Rocco (Lorenzo Acquaviva), spietato usuraio che chiede, minacciandoli, la restituzione entro una settimana di 12.000 euro a fronte di 3.000 euro prestati al padre. Tra Simone – che ha portato la ragazza in casa del padre (dove il cane si sta acquetando), chiedendole di ripulirla dopo che i traslocatori la avranno liberata – e Marica sta nascendo un sentimento ma quando si baciano, lui si scosta dicendole di non potere. Marcello va da Rocco con i pochi soldi che lui e la sorella hanno raccolto ma questi lo scaccia sprezzante al che lui gli dà una coltellata; l’altro, pur colpito mortalmente, estrae un revolver e gli spara. Il ragazzo, ferito e spaventato, non trova altra soluzione che andare da Segre. Questi lo cura e, insieme alla sorella lo accudisce. La vicenda ha un epilogo malinconico ma pacificato, dove ciascuno dei personaggi trova uno spazio per ricominciare, affrontando il peso di antichi e recenti rimorsi e rimpianti.

Il film era quest’anno a Venezia, unico italiano nella selezione della Settimana Internazionale della Critica, ed ha fatto vincere a Gassmann il Premio Pasinetti e all’esordiente Zunic il Nuovolmaie Talent Award. Premi più che meritati: il giovane attore ha dato una gran prova in un ruolo a costante rischio di cliché e Gassmann – pur, forse, un po’ sovraesposto – ha retto la prova con bella intensità e – da professionista di solida scuola – pregevole generosità, lasciando i giusti spazi ai giovani compagni di scena e valorizzandoli (un po’ del merito del premio a Zunic possiamo dire sia anche suo). Non odiare è, peraltro, un ottimo esordio: Mauro Mancini, dopo aver firmato nel 2009 un episodio del collettivo Feibum – Il film, ha scelto questa storia complessa e con mille rischi di retorica e ha dato prova di saperla gestire con sapienza e con la risoluta volontà di non cedere a scorciatoie ammiccanti; l’unico difetto (perdonabile per un così difficile esordio)  sta, paradossalmente, in un suo pregio: le location triestine del film  sono splendide e  inattese e – come succede quando le si sceglie con talento – contribuiscono efficacemente al racconto ma, talora, il regista sembra essere sovrastato dal fascino dei luoghi e vi sofferma l’azione un po’ più del necessario. Nel complesso, comunque, (e qui mi fido del giudizio di amici che, a differenza di me, erano a Venezia) credo proprio che questo sia il miglior film italiano presentato all’ultima Biennale. Nel vederlo ho pensato – e non sono stato il solo – ad un altro sorprendente film di ambientazione ideale simile, American History X: in Non odiare c’è la stessa volontà di “capire” artisticamente, senza appesantimenti sociologici od ideologici ma – pur mantenendo la doverosa distanza da un mondo squallidamente violento – con l’empatia di chi sa restituire a chi guarda “persone” dolenti e non stereotipi. Una parola va spesa poi per la qualità produttiva del film: la Movimento Film di Mario Mazzarotto ha, come spesso fa, dato al film tutto quello che serviva – di lavoro e di mezzi – per rendere così esteticamente efficace un’opera prima. Nel nostro cinema, da molto tempo ormai, è un comportamento sempre più raro e va sottolineato perché è la sola premessa perché un indubbio talento narrativo possa venir fuori. Non dimentichiamo mai che, nel cinema, l’uso intelligente dei soldi è creativo e decisivo al pari della ispirazione artistica degli autori e degli interpreti.




Spettri di Henrik Ibsen

Regia di Walter Pagliaro

Con Micaela Esdra, Igor Matteri, Giorgio Crisafi, Fabrizio Amicucci, Dalila Reas

Helen (Esdra), la vedova del nobile Capitano Alvig sta prendendo gli ultimi accordi con il mellifluo pastore Mandes (Crisafi) per l’inaugurazione dell’orfanotrofio che porterà il nome del marito a celebrarne le virtù. In realtà lui era un debosciato e tutto il peso del consolidamento del patrimonio di famiglia e del mantenimento del buon nome del casato, nonché l’educazione del figlio Osvald –mandato appena giovinetto a Parigi per allontanarlo dalle depravazioni paterne – avevano gravato sulle sue spalle di donna forte e consapevole. Ecco tornare Osvald (Mattei) che, dopo un brillante esordio come pittore, è ora debilitato da un male profondo che gli impedisce di fare qualunque cosa. In casa Alvig lavora come cameriera Regine (Reas), figlia del bieco falegname Jakob (Amicucci), che cerca, con l’aiuto (inconsapevole?) del pastore, di farsi dare i suoi risparmi per aprire un bordello per marinai e farvela lavorare; quando Osvald la vede, se ne innamora e si riaccende alla speranza di poter, con il suo aiuto, ritrovare la forza di vivere. Lei però è figlia naturale del barone e Helen sarà travolta dall’orrore quando saprà che si è congiunta con Osvald. Tutto il castello di perbenismo che caparbiamente la madre aveva costruito crollerà miseramente e gli antichi peccati – in un incendio devastante – distruggeranno le vite di tutti.

Spettri Foto RingrazimentiQuesta, a grandi linee, la storia che Spettri ci racconta e Pagliaro – che si conferma regista di grande respiro –  le rimane saggiamente fedele: il testo di Ibsen è troppo archetipico e potente per sopportare inutili aggiornamenti. La regia – attenta alla tradizione ibseniana ma con un occhio a Strindberg e, credo, anche a Festen di Thomas Vinterberg –  nel teatro Palladium di Roma (dove lo ho visto), mette gli attori nelle prime file di platea, dove piazza – minaccioso nella sua apparente irrilevanza – un attaccapanni con la divisa del Barone. Là dove lo spettacolo dà il suo massimo è nella distribuzione dei ruoli, a partire dai due protagonisti: la Esdra riesce a trasmettere la disperazione e la solitudine della sua Helen anche nei momenti di apparente levità e Igor Mattei, alle prese con uno dei ruoli più complicati e scivolosi di Ibsen (è un niente che si cada nel guignol), rende ad Osvald l’eccezionale – e, al contempo, universale – angoscia di vivere. Né sono da meno gli altri: Crisafi toglie a Mandes i toni luciferini per farne crescere, dialogo dopo dialogo, il brutale cinismo, Amicucci segna con pochi tratti il territorio di una malvagità che lo porta ad essere una sorta di deus ex-machina al contrario e, infine, la giovanissima Reas dà a Regine la triste dignità di un agnello sacrificale segnato sin dalla nascita. Insomma uno spettacolo intelligente, emozionante e colto e un bell’esempio del teatro essenziale – ma non pauperistico – che è particolarmente necessario proporre.




Lontano lontano

di Gianni Di Gregorio. Con Ennio FantastichiniGiorgio ColangeliGianni Di GregorioDaphne ScocciaSalih Saadin Khalid Italia 2019

Il Professore (Di Gregorio) vive a Trastevere della modesta pensione di ex-insegnante di latino e greco; il suo amico Giorgetto (Colangeli) si deve invece accontentare della pensione sociale: non ha mai avuto un impiego ed è campato di una piccola parte dei proventi di un banco di frutta e verdura che i genitori avevano lasciato al suo laborioso fratello Oreste (Giancarlo Porcacchia) e a lui, che non vi aveva quasi mai lavorato. Giorgetto tira avanti come può: mangia la frutta che il fratello, brontolando, gli regala, non paga da anni l’affitto della casetta nella quale abita (con costante rischio di sfratto) ma è di buon cuore e consente al giovane immigrato Abu (Saadin Khalid) di usare la sua doccia, dividendo con lui proprio magro pasto; ora, però, ha deciso di seguire l’esempio di altri pensionati e di andare a vivere in un paese nel quale il cambio e le condizioni generali gli consentano di vivere un po’ meglio e coinvolge nel progetto il Professore. Avendo saputo che la tabaccaia Daniela (dalla quale lui compra, speranzoso, i gratta e vinci) ha un cliente il cui fratello è andato a vivere all’estero per i suoi stessi motivi, gliene chiede l’indirizzo e lei, frugando nella memoria, tira fuori un nome e un indirizzo nella estrema periferia. Dopo un lungo tragitto in autobus i due amici arrivano nella villetta (abusiva?) di Attilio (Fantastichini) e si accorgono ben presto che non è lui la persona che cercano; parlando davanti ad una birretta, Attilio – che non ha pensione e si è improvvisato restauratore di mobili, che in parte rivende la domenica nel mercato di Porta Portese – si dimostra interessato all’idea di partire e, all’uopo, si fa accompagnare dagli altri due dal prof. Federmann (Roberto Herlitzka), al quale ha restaurato uno specchio. Quest’ultimo, dopo essersi scolato con loro una grappa di nascosto dalla moglie (Francesca Ventura), dà un saggio di tutto il suo sapere indicando loro le mete più convenienti, salvo richiamarli la sera e proporre come paese ideale le Isole Azzorre. I tre si danno da fare per trovare i soldi del viaggio: il Professore vende alcune delle sue adorate rarità letterarie ad un amico libraio (Matteo Maglia), Giorgetto si fa dare qualche soldo dal fratello e compra tanti gratta e vinci, mentre Attilio – dopo essersi ingaggiato Abu per portare dal rigattiere (Dario Beffa) i suoi strani manufatti e aver visto le precarissime condizioni di vita del giovane immigrato – comincia ad avere dei dubbi sul viaggio: ha appena ritrovato l’affetto della figlia (Daphne Scoccia), che da bambina aveva trascurato. Anche il Professore avrebbe un motivo per restare: è riuscito a parlare con la signora (Galatea Ranzi) che vedeva sempre al bar e della quale si era invaghito. In fondo, anche Giorgetto ha scoperto di stare al banco di famiglia, sopportando addirittura la temibile Signora della Cicoria (Francesca Borromeo). Alla fine qualcuno partirà ma non è detto che siano loro (una fetta di cocomero a Terracina, in fondo, è già abbastanza esotica).

Lo sceneggiatore Gianni Di Gregorio dopo il tardivo e fortunato esordio con Pranzo di Ferragosto sembrava aver esaurito la coinvolgente e teneramente ironica vena: i suoi due successivi film da regista, Gianni e le donne e Buoni a nulla, sembravano stanche riproposizioni del suo personaggio indolente e sognatore. Lontano lontano (tratto dal suo racconto Poracciamente vivere, apparso nella raccolta  di autori romani Storie della città eterna, edito da Sellerio) è invece una bella sorpresa: lui sembra aver ritrovato la propria miglior vena, i suoi compagni di scena (Fantastichini nella suo ultimo ruolo prima della scomparsa, Colangeli ed Herliztka) sono bravissimi, Trastevere diventa sommessa ma efficacissima co-protagonista (e non era facile riprenderla per l’ennesima volta e darle un tocco personale) e lo stesso finale buonistissimo (che non raccontiamo per non spoilerare ma è facile da intuire), ben lungi dall’aver lo sgradevole sapore di una forzatura nella chiave dell’odioso politically correct, chiude con un soffio poetico la favola dei tre anziani:.. e vissero “poracciamente” ma, in fondo felici e contenti.