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Anna Gedda: “Riciclata e sostenibile, ecco la t-shirt del futuro”

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Produrre tessuti senza inquinare con fonti rinnovabili e rispettando i diritti: la sfida di H&M.

QUALCHE esempio virtuoso c’è. Aziende che da anni cercano di migliorare le condizioni di lavoro nei paesi emergenti. La sostenibilità è soprattutto questo. Non solo non inquinare, riciclare, utilizzare fonti rinnovabili, ma soprattutto tutelare gli operai che lavorano nell’industria tessile, rispettare la loro dignità, impedire sfruttamento e orari impossibili, garantire stipendi adeguati, debellare la piaga del lavoro minorile. Ne parliamo con Anna Gedda, responsabile della sostenibilità di H&M, colosso svedese dell’abbigliamento low cost presente in 57 paesi con 3.500 negozi. H&M non possiede fabbriche proprie, ma si avvale di circa 900 fornitori indipendenti collaborando con i quali crea oltre un milione di posti di lavoro. E ieri era il giorno in cui, non senza orgoglio, l’azienda ha presentato il suo tredicesimo report annuale sulla sostenibilità, una sorta di bilancio delle cosiddette “azioni consapevoli” stilato dal gruppo. “La tragedia del Rana Plaza a Dacca, due anni fa, in cui morirono 1.129 operai che lavoravano per marchi internazionali e da cui H&M era completamente estraneo, è stato un terribile campanello d’allarme per le aziende che producono nei paesi emergenti – commenta Anna Gedda – Fortunatamente, e ne siamo orgogliosi, noi da anni abbiamo adottato una politica aziendale di segno molto diverso”.

Quali sono nel dettaglio le vostre iniziative concrete?
“Dopo la tragedia del Rana Plaza, nonostante non fossimo in alcun modo coinvolti, siamo stati la prima azienda a firmare il Fire and Safety Agreement, l’accordo tra sindacati, organizzazioni non governative e marchi di moda per garantire standard di sicurezza ai lavoratori dell’industria tessile nel Bangladesh. Quanto alle nostre iniziative concrete, tutti i nostri fornitori, e i fornitori dei fornitori, e tutti coloro che hanno un rapporto d’affari con la nostra azienda devono necessariamente sottoscrivere il nostro Codice di condotta, istituito già nel 1997”.

Cosa prescrive?
“Regola e sancisce i requisiti legali, il divieto assoluto del lavoro minorile, il rispetto delle norme di sicurezza, i diritti dei lavoratori a condizioni ambientali favorevoli, il diritto alle cure mediche”.

Come vi assicurate che questo codice venga rispettato?
“Con ispezioni a sorpresa da parte di controllori interni ed esterni, ispezioni rispetto alle quali siamo severissimi, inflessibili”.

Come si concilia la sostenibilità con il profitto?
“La sostenibilità è una grande opportunità. Dobbiamo coglierla e applicarla a tutto il nostro business se vogliamo crescere nel tempo”.

Quale considera un passo avanti significativo compiuto dalla vostra azienda?
“Indubbiamente la trasparenza della nostra catena di fornitura, disponibile in rete nel sito www. hm. com a chiunque voglia consultarla. Abbiamo aggiunto all’elenco pubblico delle fabbriche di cui ci avvaliamo anche chi fornisce tessuti e filati”.

A che punto è il vostro piano aziendale per una politica di stipendi più equi? Cosa intendete per stipendio equo?
“Un salario minimo equo è un salario in grado di soddisfare le esigenze primarie del lavoratore. Deve essere aggiornato a cadenza annuale e negoziato con sindacati democraticamente eletti. Purtroppo in molti dei nostri paesi di produzione questo non avviene”.

Ma in che cosa consiste il vostro piano d’azione?
“È un progetto, chiamato Fair Wage Method, con cui facciamo appello ai governi, alle altre imprese dell’abbigliamento e ai rappresentanti della manodopera tessile perché si possa lavorare tutti assieme garantendo salari equi e rispetto dei diritti. Ci stiamo spingendo in territori mai esplorati prima dalle aziende e invitiamo il resto dell’industria a seguirci”.

Un progetto ancora agli inizi.
“Abbiamo cominciato a testare la nostra strategia per salari equi l’anno scorso, per il momento in tre fabbriche-modello, due nel Bangladesh e una in Cambogia e quest’anno amplieremo l’esperimento a 60 stabilimenti. Il risultato è stato un aumento dei salari a fronte di una diminuzione degli straordinari. Ora stiamo lavorando per introdurre sistemi simili in tutte le fabbriche dei nostri fornitori, il che dovrà avvenire entro il 2018. La misura interesserà circa 850 mila operai dell’industria tessile”.

Mi faccia un esempio: quanto guadagna oggi un’operaia che lavora in una di queste fabbriche?
“Alla Suzhou Silk, in Cina, lo stipendio mensile di un operaio ammonta a circa 425 euro. Vale a dire il 50 per cento in più rispetto al salario minimo locale”.

Sintetizza il ceo dell’azienda, Karl-Johan Persson: “Offriamo moda e qualità al miglior prezzo, ma non a qualsiasi prezzo. Per questo continuiamo a lavorare duramente per rendere sostenibile l’intero settore, dalla coltivazione del cotone alla raccolta degli abiti usati “. In un anno ne sono state messe insieme oltre 13 mila tonnellate, una massa di fibra tessile equivalente a 65 milioni di t-shirt. L’Italia è uno dei paesi in cui il progetto ha avuto maggiore successo. Entro il 2015 la quantità dei capi prodotti in fibre riciclate, che l’anno scorso è raddoppiata, si prevede aumenti del 300 per cento. Altro obiettivo è quello di utilizzare energia elettrica proveniente solo da fonti rinnovabili, oggi al 27 per cento.

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